Descrizione
Kenya, Seconda Guerra Mondiale: Wariuki è un giovane con pochi soldi e un sacco di fascino, che gira per il suo villaggio con una bici mezza scassata e coloratissima, si esibisce in danze scatenate e in irriverenti imitazioni dei “padroni bianchi” e dei neri che accettano di diventarne servi. E così facendo “conquista il cuore di Miriamu”, ragazza di una famiglia dell’alta borghesia kenyota, figlia minuta e obbediente di Douglas Jones, ricco imprenditore convertito al cristianesimo e alla mentalità inglese in generale. Il severissimo e temuto padre, che naturalmente per la figlia desidera “il meglio”, convoca l’aspirante genero e gli fa presente che anche se “la famiglia non si opporrà al matrimonio, esso dovrà svolgersi sotto la Croce, un matrimonio in chiesa”.
I due innamorati (lui “pagàno”, lei con un cristianesimo fatto di misericordia e canzoni), scappano e si amano, ma dal giorno di quel “processo” Wariuki vivrà con un tarlo dentro che alla lunga li porterà alla fine: non è felice, e per cancellare il ricordo di quel giorno fa di tutto: si arruola nell’esercito britannico e combatte “i maledetti tedeschi” in giro per il mondo, mette su un’impresa che commercia legname, inglesizza il suo nome, studia all’occidentale, diviene ricco… e cristiano. Per tornare infine dai suoceri e lavare l’onta, con un matrimonio riparatore e benedetto finalmente dalla Croce.
Si chiude così, con la morte rituale o meglio simbolica del protagonista, il racconto che dà nome alla raccolta e che – meglio di tutti – simboleggia la tragedia dello sradicamento, il grottesco fenomeno del “colonialismo mentale” che trasforma un uomo libero e felice in uno schiavo ricco conformista e crudele. Perché nelle storie di Ngugi, come nella vita reale, sono spesso gli uomini, i maschi, i rappresentanti della resa (si fanno predicatori, o businessmen, o politici, perché così fanno gli Europei), mentre le donne, ancorate alla propria terra con fierezza innata, sono le testimoni di un sapere apparentemente più semplice ma di fatto molto più profondo e naturale.
Sono racconti che hanno il sapore amaro e riarso, e la incorrotta vitalità di un panorama africano, soffusi da un’abilità letteraria che non fa conto menzionare e dall’ironia, unica cosa “british” che l’autore non ha potuto rinnegare.
Ngūgī wa Thiong’o
Ngugi wa Thiong’o, narratore da qualche anno in odor di Nobel, è considerato uno dei principali esponenti della letteratura africana. Nato kikuyu e battezzato cristiano, autore di diversi romanzi in Inglese negli anni Sessanta, fu arrestato e imprigionato nel 1977 a causa delle sue posizioni fortemente critiche nei confronti delle disuguaglianze e delle ingiustizie della società kenyota.
Fu durante la detenzione nel carcere di massima sicurezza di Kamiti che prese la decisione di abbandonare la lingua inglese, sostituendola (per la narrativa) col gikuyu. Nella sua lingua originaria compose dunque Caitani Mutharabaini (1981), romanzo tradotto in Inglese con il titolo Devil on the Cross (1982). Nel 1986 pubblicò Decolonising the Mind, saggio in cui annunciò il suo addio definitivo all’Inglese, perché “le lingue africane, essendo quelle del popolo, non possono essere che nemiche dello Stato neocoloniale”.
Liberato ed esule negli USA, attualmente vive e insegna ancora negli Stati Uniti, presso la University of California.
I libri di Ngugi sono tradotti in più di trenta lingue e sono argomento di saggi critici e monografie.
Claudia Pezzetti –
Ngūgī wa Thiong’o | Un matrimonio benedetto
di Claudia Pezzetti, Il giro del mondo attraverso i libri, 4 dicembre 2017
Ngūgī wa Thiong’o nasce in Kenya nel 1938 e nel 1977 vieen arrestato e incarcerato a causa delle critiche nei confronti delle ingiustizie della società keniota di quegli anni; attualmente, Ngūgī wa Thiong’o vive negli Stati Uniti e da diversi anni compare tra i nomi dei candidati al premio Nobel per la Letteratura.
Un matrimonio benedetto di Ngūgī wa Thiong’o (Quarup, trad. M Ferrazza, 183 pagine, 13.90 €) è una raccolta di tredici racconti, limpidi e lucidi, che hanno come protagonisti i rappresentanti della società keniota, dai nativi ai coloni. I racconti sono suddivisi in tre parti e seguono un filo logico ben preciso.
La prima parte è dedicata alle madri e ai figli. In questi tre racconti troviamo una donna che cerca il coraggio di abbandonare il marito violento; una donna sterile che senza volerlo salva il figlio di una donna che invidia perché ha una numerosa prole; una donna, da tutti creduta pazza, che racconta la tragica morte del figlio a causa della siccità.
Nella seconda parte dedicata ai dominatori e alle vittime, troviamo un reverendo che prega affinché cada la pioggia ma che non inizi a cadere proprio quando giunge al villaggio lo stregone; c’è un ragazzo che, seppur diplomato, crede alla maledizione di famiglia; c’è la tragica vicenda di un servo che, cercando di avvisare i padroni bianchi di un pericolo imminente, subirà un incidente; c’è un uomo che torna dopo anni di prigionia al suo villaggio e scopre che tutto e tutti sono cambiati; c’è un ragazzo molto giovane, intelligente e promettente che prima di partire per l’università deve risolvere un problema con una ragazza superstiziosa e ignorante; infine, ci sono due coloni bianchi alla vigilia della loro partenza dall’Africa che si interrogano cosa sia davvero la civiltà.
Nella terza e ultima parte ci sono le vite nascoste: una ragazza che si svende agli uomini solo per qualche minuto di notorietà; un uomo che rinnega la sua religione pagana e la sua natura solo per compiacere il ricco suocero; un uomo che racconta in un bar segreti legati al funerale di un noto politico e infine un uomo che abbandona il villaggio per andare in città, rinnegando la sua vocazione, e si accorge che non è tutto oro ciò che luccica.
I racconti di Ngūgī wa Thiong’o mi sono piaciuti molto: in generale, amo molto il genere del racconto, ma in questo caso l’ho apprezzato ancora di più perché grazie a tredici brevi storie ho avuto la possibilità di guardare la società keniota con un respiro molto più ampio e attraverso diverse sfaccettature.
Ognuno dei tredici racconti mi ha coinvolta, vuoi per lo stile semplice e diretto, vuoi per le descrizioni poetiche oppure per la mia innata curiosità nello scoprire culture diverse dalla mia; ma i racconti di Ngūgī wa Thiong’o non sono solo questo, non si leggono solo per diletto o divertimento: l’autore keniota analizza profondamente il suo paese, presentando un quadro ben definito e preciso nel breve lasso temporale del racconto.
Vengono fuori gli aspetti legati alla colonizzazione dei bianchi, con le disparità sociali che ne conseguono. Ci si chiede che cos’è davvero la civiltà e se ha senso – e giusto – andare a “civilizzare” quegli uomini che vengono ritenuti selvaggi e ignoranti, una tematica che avevo già ritrovato ne Il crollo di Chinua Achebe. Ci si chiede se abbia senso o meno abbandonare la propria religione (che è anche quella dei propri avi), la propria lingua e le tradizioni ancestrali solo perché giunge da lontano un uomo bianco a dare nuovi ordini e disposizioni. Una lettura decisamente consigliata.
Titolo: Un matrimonio benedetto
L’Autore: Ngūgī wa Thiong’o
Traduzione: Marco Ferrazza
Editore: Quarup
Perché leggerlo: perché si tratta di una bella raccolta di tredici racconti che analizzano in dettaglio e in modo coinvolgente la società keniota durante e dopo la colonizzazione dei bianchi.
Redazione –
Il keniano Ngugi wa Thiong’o sfiora per l’ennesima volta il Nobel
di Redazione. Malindikenya.net, 6 ottobre 2017
Da Bob Dylan a uno scrittore keniano. Sarebbe stato bello, anche perché l’intellettuale, poeta, saggista e professore universitario Ngugi wa Thiong’o insegue il Nobel per la letteratura dal 2012.
Ogni anno i bookmaker lo danno nella ristretta rosa dei favoriti, e puntualmente l’ambito premio va a qualche altro grande personaggio. Anche la finale del 2017, che ieri ha dato il suo verdetto, ha visto Ngugi appena sotto il vincitore, il giapponese naturalizzato britannico Kazuo Ishiguro.
Si sperava che la difficile situazione del suo Paese potesse dare quel “quid” in più alla giuria svedese.
Sarebbe stato un ottimo segnale ai politici keniani sul senso della cultura in Kenya, per riportare il senno nel caotico momento di crisi istituzionale.
La carriera letteraria di Ngugi parte dall’Indipendenza del suo Paese e dalla fine dell’era coloniale, raccontata nel romanzo Un chicco di grano, tradotto anche in italiano. Una storia che ripercorre retroscena e paradossi del passaggio storico dall’Impero britannico alla Repubblica del Kenya, tra Mau Mau, intrighi e accordi sottobanco, che si alternano alle vicende dei due protagonisti.
Ngugi wa Thiong’o negli anni Settanta è stato osteggiato per le sue idee dal governo del presidente Arap Moi, che lo mise anche in carcere.
Durante quell’esperienza, abbandonò la lingua inglese e decise di iniziare a scrivere racconti e romanzi nella lingua della sua tribù, il Gikuyu.
Il suo romanzo Diavolo in croce, che venne scritto interamente negli anni del carcere, è stato il primo della serie e ha un’altra curiosa particolarità, è stato composto interamente di nascosto, su rotoli di carta igienica. Seguono altri romanzi e novelle tradotti in italiano, come Petali di sangue, Sogni in tempo di guerra e Un matrimonio benedetto.
Ngugi wa Thiong’o vive ormai stabilmente negli Stati Uniti, ma ormai torna tranquillamente a Nairobi.
Leggi la recensione nella sua pagina web
Giorgia Del Monte –
Un matrimonio benedetto
di Giorgia Del Monte
Inediti in italiano, i racconti brevi del grandissimo scrittore e intellettuale keniano contenuti in questa raccolta furono pubblicati a metà degli anni Settanta, prima che l’autore abbandonasse l’inglese in favore del gikuyu, nella convinzione che fosse necessario decolonizzare la letteratura e, con essa, il pensiero. Ambientate alternativamente nel Kenya precoloniale, in transizione o indipendente, le storie narrate da Ngũgĩ raccontano il paese in modo caleidoscopico, attraverso le vicende di personaggi attanagliati da problemi e difficoltà. Sono tanti i fili rossi che legano le storie tra loro: il tema del segreto, quello dello scontro religioso, quello della relazione con gli altri, ma forse il tema che emerge più di tutti – in linea con le posizioni che l’autore non ha mai smesso di sostenere – è quello dei rapporti di forza e di potere e del ruolo che essi svolgono nella vita delle persone. Un libro imperdibile per chi già conosce e ama lo scrittore keniano, ma anche per chi voglia avvicinarsi per la prima volta alla sua produzione.
Luciano Luciani –
Uno scrittore africano sulle soglie del Nobel
di Luciano Luciani, Libere Recensioni, 16 novembre 2016
Anche quest’anno i giurati svedesi del Nobel per la letteratura hanno perso una buona occasione. Se l’attribuzione del prestigioso riconoscimento al poeta e menestrello Bob Dylan ci rallegra – almeno dal punto di vista generazionale –, restiamo convinti che sarebbe stato necessario uno sguardo più largo: ovvero che un premio così carico di significati sarebbe dovuto andare a un autore dalla scrittura ben più robusta sul piano estetico e civile.
Magari ampliando la propria attenzione a letterature più periferiche, ma vitali, originali, capaci di contenuti inconsueti. Per esempio quelle di un continente per tanti versi dimenticato come l’Africa, le cui sofferenze, drammi e dilemmi continuano ad arrivare sino a noi attraverso le voci e le opere dei suoi poeti, scrittori, drammaturghi, saggisti…
Alcuni nomi? Il ghanese Aiy Kewi Armah (1939), il somalo Nuruddin Farah (1945), il mozambicano Mia Couto (1955), il botswano Barolong Seboni (1957), il keniota di etnia kikuyu Ngũgĩ wa Thiong’o (1938) già da qualche anno in odore di Nobel. Quest’ultimo, uno tra gli scrittori più interessanti dell’Africa post-coloniale, forse più e meglio di altri ha saputo raccontare le contraddizioni aspre e i bordi taglienti di una decolonizzazione che non saputo mantenere, se non in minima parte, le speranze di riscatto e liberazione che l’avevano sostenuta e alimentata e imponendo così ai suoi protagonisti prezzi altissimi.
Non solo nei termini economici e sociali di un mancato sviluppo, ma culturalmente: lo sradicamento e l’assoggettamento psicologico, innanzitutto, dell’uomo africano nei confronti dei modelli importati e imposti dai padroni bianchi, i “pallidoni del cavolo”. Cacciati sì, dopo lunghi anni di sanguinose rivolte, ma ancora presenti nei cuori e nelle teste di tanti africani, non ancora uomini liberi, ma solo schiavi benestanti: perché – ci significa Ngũgĩ – l’arma più potente nella mani dell’oppressore è sempre stata la mente dell’oppresso.
In attesa del Nobel, lo scrittore keniota, tradotto in più di trenta lingue – anche in Italia a partire dalla fine degli anni settanta, sia pure in maniera non sistematica – continua a essere proposto a un lettore italiano intenzionato a cimentarsi con una scrittura di qualità, non banale e non effimera.
Recentemente lo ha fatto anche la piccola e coraggiosa Casa editrice quarup con un libro di racconti, Un matrimonio benedetto (Secret Lives, and Other Stories), che risale al 1976 – alla vigilia di un anno cruciale nella vita del letterato africano, quello della sua restrizione nelle carceri del suo Paese per aver criticato la politica filoccidentale e neocolonialista dei governanti kenioti – e che corrisponde alla fase più marcatamente politica e civile del romanziere kikuyu.
Un grappolo di narrazioni robuste, intense, piene di umanità e quindi di “politica”, se è vero che la politica non può che trattare delle vicende e dei sentimenti delle persone: storie di uomini e donne sospesi tra modernità e tradizione, tra il villaggio e la città, tra i valori della tribù e un nuovo Kenya popolato di africani ricchi, di funzionari corrotti – servi che a forza di servire sono diventati padroni –, di ingiustificabili e incomprensibili lacerazioni sociali.
Racconti segnati in genere da finali che sanno di ripiegamento e di sconfitta: metafore riuscite e dolorose del destino che avrebbe nei decenni successivi tradito e offeso l’Africa e le speranze dei suoi popoli, delle sue genti.
Leggi la recensione nella sua pagina web
Roberto Russo –
Un matrimonio benedetto, di Ngūgī wa Thiong’o
di Roberto Russo, Grapho Mania, 4 novembre 2016
Un matrimonio benedetto è il titolo di uno dei tredici racconti di Ngugi wa Thiong’o che compongono l’antologia omonima, pubblicata in Italia da Quarup. Il titolo originale della raccolta, uno degli ultimi testi in inglese di Ngūgī wa Thiong’o, è Secret Lives, and Other Stories e la prima pubblicazione risale al 1975.
L’antologia è composta di tre parti (Madri e figli – tre racconti; Dominatori e vittime – sei racconti; Vite nascoste – quattro racconti) che ruotano attorno a temi cari all’autore, quali l’identità propria di un popolo, l’appiattimento dovuto alla cultura colonialista, l’esprimersi attraverso le parole e le storie che risuonano nell’intimo di ogni persona.
Con la sua penna, Ngūgī wa Thiong’o ci porta a conoscere le vite di donne che si sentono rifiutate perché non hanno figli ma anche donne che riescono a ribellarsi a questa imposizione; ragazzi che per essere qualcuno vanno all’estero a studiare e poi tornano tronfi del loro sapere e ragazzi che rimangono, sono ben visti da tutti, ma poi alla fine non sono così diversi da quelli che sono andati via. Una sorta di disfacimento di tutto un tessuto è quello che ci scorre sotto gli occhi leggendo le storie raccontate da Ngūgī wa Thiong’o in Un matrimonio benedetto.
Alcune storie, com’è ovvio che sia, restano più impresse nella memoria di chi legge. Quella di Nyokabi, per esempio, che «sapeva che stava diventando vecchia […] così vecchia, e ancora nessun figlio! Questa era la sua preoccupazione. Era una cosa inconcepibile. Era sterile». Eppure, in una maniera del tutto inaspettata, la pioggia che cade la rende feconda e capace di ri-dare la vita. O ancora il racconto La vittima che narra di «quando il Signor e la Signora Garstone furono assassinati da delinquenti sconosciuti in casa loro» e dei «molti commenti a riguardo» che ne nacquero. Ovviamente i «bianchi» davano per scontato che a compiere l’efferato delitto fossero stati i «neri». E, alla fine, risulta pure evidente che le cose stessero così. Ma siamo sicuri?
Leggi la recensione nella sua pagina web
Emanuela Riverso –
Aspettando il Nobel. In Kenya con Ngūgī wa Thiong’o
di Emanuela Riverso, Luoghi d’autore, 05 luglio 2016
In partenza per il Kenya? Fra le letture legate alla destinazione avrete sicuramente previsto La mia Africa di Karen Blixen e i vari romanzi di Hemingway ambientati in Kenya. Ma forse vi manca l’opera di un autore kenyota e, se così fosse, vi suggeriamo di portare con voi anche i libri di Ngūgī wa Thiong’o, narratore in odor di Nobel da qualche anno, uno dei maggiori esponenti della letteratura africana.
In un articolo pubblicato il 27 gennaio 2001 sul Corriere della Sera Claudio Magris ha scritto: «Ngūgī wa Thiong’o è uno scrittore che coopera a “spostare il centro del mondo”, come dice il titolo di un suo libro. È ciò che fa ogni vero scrittore, cogliendo l’universalità nell’angolo più appartato e trasformando la periferia più remota in un teatro in cui si gioca il destino dell’uomo […] La sua opera è un’armoniosa sintesi di cultura occidentale e cultura africana […] Egli è soprattutto un possente scrittore epico, capace di raccontare la vita e la morte; anche per merito suo l’Africa, questa zona d’ombra del nostro mondo e della nostra coscienza, entra concretamente nel nostro immaginario e dunque nella nostra realtà, diventa un po’ una nostra patria».
Nel 2015 la casa editrice Quarup ha pubblicato Un matrimonio benedetto, una raccolta di racconti in cui l’abilità letteraria e l’ironia di questo scrittore africano emergono fortemente.
Autore di diversi romanzi in inglese negli anni Sessanta, Ngūgī wa Thiong’o nel 1977 fu arrestato per avere espresso opinioni critiche nei confronti delle disuguaglianze nella società kenyota. Durante il periodo di carcere decise di abbandonare l’inglese per la narrativa, iniziando a scrivere in gikuyu (Ngūgī wa Thiong’o nato kikuyu, fu battezzato cristiano). Dopo essere stato liberato, lo scrittore si trasferì negli Stati Uniti dove ancora oggi vive insegnando letteratura comparata presso la University of California.
Leggendo questi racconti ci si rende conto di quanto il quotidiano, in Kenya, sia scandito dalla natura che circonda i protagonisti: l’albero sacro ai kikuyu, ovvero l’albero di Mugumo, è una presenza costante e fondamentale per la società. Muto, possente e misterioso, è lì a disposizione per i riti sacri con cui avere la meglio sul nemico o evocare la pioggia. E la natura, con tutta la sua forza, riesce ad incidere in maniera determinante sui personaggi, per esempio, ha un profondo effetto benefico su Mukami, protagonista del racconto Mugumo:
«Il sole sorgeva e grandi lame di luce giallo oro penetravano attraverso la boscaglia e raggiungevano il luogo in cui si trovava Mukami, seduta contro il tronco dell’albero. Non appena i raggi di luce dardeggianti toccarono la sua pelle, lei provò una sensazione piacevole che le attraversò tutto il corpo. Il sangue riprese a scorrerle nelle vene e oh! sentì caldo, tanto caldo e insieme gioia e leggerezza. La sua anima danzava e il suo ventre seguiva il ritmo […]».
La natura provoca lo stesso effetto anche su Nyokabi, protagonista del racconto Cadde la pioggia:
«[…] una piacevole sensazione la attraversò appena le prime rade gocce toccarono la sua pelle. Sì! Le prime benedette gocce di pioggia ebbero un effetto calmante su di lei, che si sentì finalmente in grado di spalancare il suo freddo cuore alla fredda pioggia […]».
La stessa natura provoca però anche povertà, miseria, fame: «Mamma ti prego dammi qualcosa da mangiare», una frase che pronunciata da uno dei nostri bimbi quasi suona come un capriccio, ma pronunciata dal bimbo del racconto Siccità assassina, diventa una struggente pugnalata. E se ci si mette nei panni della madre, l’empatia diventa devastante. Il bimbo ha ancora la speranza che la mamma possa risolvere, la mamma ha la consapevolezza di non aver più nulla per lui, di aver finito anche l’ultimo grammo di farina.
Ngūgī wa Thiong’o commuove, emoziona, induce a riflettere. Racconta gli uomini e le donne del suo paese, i primi rappresentanti della resa agli Europei, le seconde legate alla propria terra con orgoglio e fierezza innata.
Una lettura necessaria per chi ama il Kenya e la sua gente. Una lettura per rispettare in maniera completa questa terra che per noi visitatori è spesso sinonimo di safari, natura, spensieratezza.
Leggi la recensione nella sua pagina web
Paola Splendore –
Le vite segrete di Ngugi
di Paola Splendore, Lo Straniero, maggio 2016
Un matrimonio benedetto (traduzione di Marco Ferrazza, edito da Quarup) è una raccolta di racconti, per lo più inediti in italiano, dello scrittore kenyano Ngugi wa Thiong’o cui “Lo straniero”, in occasione della sua visita in Italia lo scorso anno, ha dedicato un ampio dossier (n.181, luglio 2015). Ambientati in momenti diversi della travagliata storia del Kenya, precedenti e successivi all’indipendenza, tra villaggi rurali e grandi città, i racconti mettono a fuoco vari aspetti della trasformazione sociale del paese: l’arroganza e l’avidità della nuova classe al potere, l’eredità del colonialismo nella dignità ferita degli individui, il conflitto tra i valori della tradizione culturale e religiosa del paese e il cristianesimo, il rapporto tra gli inurbati e la comunità d’origine.
Scritti tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, i racconti offrono uno sguardo antropologico e partecipe sulla vita di uomini e donne d’ogni età e condizione, di cui mettono a nudo le pulsioni più segrete, le ambizioni frustrate, il desiderio di rivalsa e vendetta, costruendo quasi una serie di parabole laiche, che toccano il cuore dei problemi. Peccato che il titolo originario della raccolta, Secret Lives, sia stato indebitamente sostituito con quello di uno dei racconti, che fuori contesto perde la sua carica ironica risultando addirittura fuorviante.
In una lingua risonante e ricca di metafore, che ingloba tutta la forza dell’oralità, ogni racconto narra una storia individuale e intima, un’angoscia segreta, un conflitto interiore: la maternità frustrata di una donna, il brillante futuro di un giovane uomo distrutto da una maledizione, l’amaro ritorno dalla prigione di un combattente per la libertà, un problema tra un padre e un figlio, il dubbio di un prete di villaggio sulla superiorità del dio cristiano rispetto allo stregone locale che riesce efficacemente a far cadere la pioggia.
Ogni racconto sperimenta una tecnica narrativa diversa e un’ampia gamma di voci che vanno dalla prosa lirica alla satira e all’ironia più sferzante. Notevoli i racconti in cui si alterna il punto di vista dei bianchi con quello dei neri come La vittima, sull’ambiguo rapporto tra un cameriere e la detestata padrona bianca, cui lo lega tuttavia una forma di compassione umana che non gli permette di appoggiarne l’omicidio, e Addio all’Africa, sul tormento di un bianco che ha torturato i prigionieri mau mau e ora teme la loro vendetta. Non manca la denuncia della classe politica kenyana che ha ereditato il potere dalle mani dei coloni britannici, della loro avidità in racconti fortemente ironici, come Un funerale in Mercedes e L’uomo di Mubenzi, in cui i nomi delle automobili Benz e Mercedes assurgono a simboli identitari per i nuovi detentori del potere. Molti i punti di raccordo, tematici e stilistici, con i romanzi maggiori di Ngugi che proprio in concomitanza con l’uscita di questi racconti alla fine degli anni settanta, chiuse la fase “inglese” optando per la propria lingua, il gikuyu, riappropriandosi così di un patrimonio culturale di cui il colonialismo aveva defraudato la sua gente, come scrive nel suo fondamentale saggio-manifesto Decolonizzare la mente (Jaca 2015).
Lo_Straniero_191_Maggio_2016_9788869656989_1398309 (trascinato)
Sara Amorosini –
La vergogna dell’uomo diviso
di Sara Amorosini, L’Indice dei Libri del Mese, Marzo 2016
Sull’onda dalla riscoperta italiana di Ngugi wa Thiong’o (Decolonizzare la mente, Jaca Book, 2015, tradotto da Maria Teresa Carbone, cfr. “L’Indice”, 2015, n.9) l’editore abruzzese Quarup ha deciso di tirare fuori dalla manica questa piccola perla: la raccolta di racconti Un matrimonio benedetto (1975), uno dei suoi ultimi testi letterari in inglese. Questi racconti sono sempre rimasti al margine della narrativa di Ngugi, quasi ignorati dalla critica, per via dei temi in buona parte ricorrenti o forse per via della forma breve, non così congeniale a Ngugi quanto la forma lunga dei romanzi o anche solo dei mémoires, in cui l’autore dà realmente sfoggio di tutta la sua estrema abilità di narratore. Ciò non toglie a Quarup il merito non solo di aver contribuito a dar voce in Italia a questo autore di fama internazionale, ma anche di aver riscoperto questo libro in particolare, inserendolo nella loro collana istituzionale accanto a José Saramago e Mia Couto.
Le tre sezioni che compongono la raccolta (Madri e figli, Dominatori e vittime e Vite nascoste) sono di fatto riconducibili ad altrettanti nuclei tematici, mentre la collocazione spaziale e soprattutto temporale varia da racconto a racconto, con il preciso intento di offrire sprazzi di vita coloniale e post-coloniale (1963), passando per la guerra dei Mau Mau. Madri e figli propone diverse prospettive sulla maternità e su come una donna possa vivere la mancanza di figli all’interno di una società tradizionalmente patriarcale incentrata sulla fertilità femminile. Dominatori e vittime si rivela la sezione più pregnante e incisiva di tutta la raccolta: i personaggi assumono spessore psicologico e compaiono temi chiave come il confronto religioso tra cristianesimo e modernità o tra paganesimo e tradizione (emblematico il racconto Il prete del villaggio, che mostra i dubbi di un prete neo-convertito al cristianesimo) e quello sociale tra colonizzatori bianchi e colonizzati neri (a questo proposito La vittima è probabilmente il racconto migliore della raccolta, seguito a ruota da Addio all’Africa). Queste prime due sezioni sono spesso ambientate in remoti villaggi dell’area rurale, immersi in un’immobilità atavica, dove la tradizione regna sovrana. Vite nascoste invece è ben radicata nell’ambientazione urbana, quale simbolo di contrasto sociale e politico, il lato “marcio” del nuovo Kenya (vedasi ad esempio la trasformazione del protagonista di L’uomo di Mubenzi una volta in città). Qua l’autore si avvale di un tono più ironico, adatto al taglio di denuncia ma anche di amara delusione per il mancato progresso post-indipendenza, spostando così l’attenzione sull’ipocrisia e l’amoralità della nuova classe dirigente (impagabile la “lotta all’ultima bara” in Un funerale in Mercedes). Fil rouge che attraversa tutta la raccolta è infine l’acuto senso di vergogna (la paura del giudizio) declinato in ogni sua forma: fonte costante di profonde lacerazioni psicologiche all’interno dell’individuo e dagli esiti più imprevedibili.
Detto ciò e senza nulla togliere alla bontà dell’operazione editoriale, un appunto va fatto alla cura del testo. Pur trattandosi di un’opera minore, la cifra letteraria dell’autore dovrebbe essere di per sé più che sufficiente a richiedere un serio e adeguato apparato critico. La stessa carenza si riscontra anche nella traduzione, che non si dimostra minimamente all’altezza della lingua e della cultura di partenza, né tantomeno di quella di arrivo.
Leggi la recensione nella sua pagina web