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Una idea di letteratura

Un mucchio di giorni così

(11 recensioni dei clienti)

12.00

Essere lasciato dalla fidanzata e desiderare (almeno) di uccidere l’uomo con cui lei ti ha rimpiazzato, assistere a uno dei più dirompenti fatti della cronaca italiana dell’ultimo decennio (perché il G8 hanno deciso di farlo nella tua città, loro), perdere il lavoro, giocare nella squadretta di calcio del carcere e portare un soprannome che fa tanto serie A, conoscere una donna sposata (e conoscerne poi anche il marito) “senza trucco, senza orecchini”, e che profuma “lievemente di arancia”…

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Categoria: Product ID: 1554

Descrizione

Essere lasciato dalla fidanzata e desiderare (almeno) di uccidere l’uomo con cui lei ti ha rimpiazzato, assistere a uno dei più dirompenti fatti della cronaca italiana dell’ultimo decennio (perché il G8 hanno deciso di farlo nella tua città, loro), perdere il lavoro, giocare nella squadretta di calcio del carcere e portare un soprannome che fa tanto serie A, conoscere una donna sposata (e conoscerne poi anche il marito) “senza trucco, senza orecchini”, e che profuma “lievemente di arancia”…
E al di là di questo, come fosse lo scenario di un teatro di posa, “oltre la finestra c’è Genova”, “parentesi lirica interrotta da una subitanea erezione”, Genova quieta nel sonno o assediata nel fumo aggressivo delle molotov contro cui poco vale il limone, mentre guardi e ti dici che “con tutta questa fica” in giro “non può succedere niente di brutto”. Ma poi magari quello succede, e succede anche a te in particolare. Una Genova tra i cui carruggi senti spargersi come un fluido una nenia dei Current 93 che dice a un bimbo di non piangere, o l’odore del mare…

Angelo Calvisi, che è genovese e genoano, ci presenta in questo suo Un mucchio di giorni così la storia condensata e intera del protagonista e ce la racconta in cinque momenti che la contengono o, per meglio dire, le danno senso e carattere. Tutti fatti, alla fine – tra tanti altri inessenziali – di quelli che a molti di noi capitano identici, ma che solo ad uno capitano tutti insieme. Una traversata nel tempo, in un luogo che ha nome ed è Genova, una storia romantica comune e specialissima come è ogni vita di uomo, distillata negli attimi che la rendono se stessa e la incapsulano come un antico animale conservato per sempre nell’ambra.

Angelo Calvisi
Angelo Calvisi è nato nel 1967 a Genova.
Divide i suoi interessi tra la scrittura e la recitazione: per Round Robin ha pubblicato i romanzi Il geometra sbagliato (2007), Maledizione del Sommo Poeta (2009), Il Principe di Persia (2009), Un giorno nella vita (2011). Parallelamente all’attività letteraria ha lavorato per un sottobosco di registi come Massimo Mesciulam, Fiammetta Bellone, Daniela Franchi e Gianluca Valentini, lavoro di cui restano in rete inquietanti tracce, sotto forma di deliranti short.

Informazioni aggiuntive

Autore

Collana

ISBN

978-88-95166-25-4

Pagine

128

Formato

12×19,5

11 recensioni per Un mucchio di giorni così

  1. Elena Giacomelli

    Quando si vive e basta
    di Elena Giacomelli

    Genova mi atterrisce.
    Spesso vado su Google Maps a guardare le strade di Sestri Ponente
    cercando le tracce del vecchio aeroporto militare.
    Wikipedia dice che è stato dismesso nel 1986 quando è stato inaugurato il nuovo Aeroporto Cristoforo Colombo. Mi sembra significativo – anche se probabilmente non lo è veramente – che la mia vecchia casa sia stata smantellata quando terminato il liceo facevo capolino nell’incertezza cronica dell’età adulta.
    Qualcosa di questa città incomprensibile deve essermi rimasta dentro.
    L’ultima volta circa dieci anni fa, lungo la sopraelevata verso il porto sono stata sopraffatta dall’incongruenza del paesaggio che mi strangolava tra il mare e il territorio inerpicato su per le colline, le facciate pastello sgretolate, l’ombra dei container su tutto. Ogni cosa è lì da tempo immemore eppure provvisoria. Deve essere l’effetto di tante partenze e ritorni.

    Tutto questo non viene descritto in Un mucchio di giorni così,
    però c’è. Ci sono tante cose che vengono descritte solo attraverso i fatti, che secondo me è il grande pregio di questo libro. Non una sola concessione a descrizioni o fraseggi, in poche parole alla “scrittura creativa”. È scritto in prima persona, un linguaggio asciutto e tagliente.

    La struttura a salti temporali è interessante, anche se non so fino a che punto risponda a un progetto preciso dell’autore. Se il progetto c’era, non mi è stato subito chiaro e non mi andava troppo di approfondire per scoprire magari che si tratta di un espediente editoriale, il che avrebbe tolto qualcosa alla bella lettura dell’ultima settimana. In effetti sarebbe l’unica ombra di questa storia ordinaria ma anche no dove per qualche giorno la mia stessa esistenza si è trovata contenuta, e per cui la mattina arrivando in ufficio mi fermavo alla sala caffè e non riuscivo a scendere e fare quello che dovevo fare senza prima leggere almeno un paio di pagine; e accendere quel dolore lieve e pungente dovuto al niente che ti fa sentire vivo e che si prova quando non si fa una cosa in particolare. Quando si vive e basta.

  2. Matteo Scandolin

    In attesa di un mucchio di giorni così
    di Matteo Scandolin

    (Attenzione: questa sarà una di quelle recensioni che parlano molto di chi recensisce, e un po’ anche dell’oggetto recensito: non me ne vogliano gli amici che non sopportano queste cose.)
    Immagina di svegliarti ogni mattina con un bussare sordo nel fondo del cervello. Ciondoli per casa, ti guardi le unghie, pulisci un po’, metti in ordine. Fai il lavoro che devi fare. E vai a letto a sera con la consapevolezza di aver infranto una promessa, di non aver fatto una cosa molto importante. Ecco, questi per me sono stati gli ultimi dodici mesi – boh, forse dieci, chissà. La cosa che non ho mai fatto, fino a questa sera che mi sono seduto finalmente ad adempiere a quella promessa, è la recensione a Un mucchio di giorni così di Angelo Calvisi.

    Qualche tempo prima dell’estate del 2012 mi arriva una telefonata da Federico Di Vita: il 13 aprile avevamo pubblicato quella che sarebbe rimasta (ed è ancora) l’ultima puntata delle sue avventure nel campo di calcetto. Forse ci abbiamo scherzato sopra, con lui che deve avermi detto: «Oh, appena riprendo a giocare, riprende anche la rubrica!» «Figurati Fede, figurati!»
    Quel giorno lì mi propone in lettura un libro che di lì a poco sarebbe stato pubblicato da un editore che non avevo mai sentito nominare, Quarup. Io cerco di nicchiare, un po’ che è da parecchio che non leggo seriamente, un po’ perché degli editori piccoli che non conosco di persona dubito sempre: ma Federico mi fa «Oh, mica è merda, fidati». E mi fido.

    Lo ricevo, lo sfoglio e penso: be’, dai, gli editori piccoli che non conosco ogni tanto sanno anche fare i libri, dai, bene. Passeranno ancora delle settimane prima che lo legga, perché indaffarato a fare non so cosa, e il libro scivola nella zona bassa delle priorità: ma quando lo leggo, lo commento con Federico in maniera sobria e delicata («Porca merda, un libro della madonna»: o qualcosa così).
    Con l’autore ci siamo sentiti per email, ha spedito qualcosa anche da pubblicare su inutile(Angelo, confesso: adesso mi metto a leggerlo!), e con Federico pure, ché più di una volta mi ha pungolato e mi ha detto «Ahò, ‘sta recensione la scrivi?» «Sìsì, la scrivo» facevo io. «Ahò, siamo da capo a dodici.»

    Ecco, allora, cari lettori di inutile, se volete un consiglio: leggete Un mucchio di giorni così di Angelo Calvisi. Non ve ne pentirete. Ma leggetelo subito, appena lo avrete tra le mani: non lasciate passare dei giorni inutili, come ho fatto io, prima di capire di cosa parla e che storie ha dentro. E soprattutto, non fate come me, che ho aspettato dei mesi prima di parlarne con altri (con voi).
    Angelo ha una scrittura piana e trasparente: ti porta in punta di piedi dentro le scene che sta costruendo, dentro quei personaggi, dentro le loro scene. Non giudica, non sentenzia, non si sbilancia, anche se la storia è narrata in prima persona. È la storia di un unico personaggio e di un’unica città, che è Genova, anche se è una storia montata a salti, quelle cose che prima perdi la persona della tua vita e poi la trovi, è tutta a salti e incrociata con tanti altri pezzi di storie e persone. È un libro di centoventi pagine denso come se fossero il doppio, e leggero come se pesasse la metà: è un editore bravo, quello che ha pubblicato Un mucchio di giorni così, e il buon Angelo, il paziente Angelo, ha una bellissima scrittura.

  3. Federico Di Vita

    Un mucchio di giorni così: intervista ad Angelo Calvisi
    di Federico Di Vita, Scrittori Precari, 24 luglio 2013

    Quasi un anno fa è uscito l’ultimo romanzo di Angelo Calvisi, Un mucchio di giorni così (Quarup, pp. 128, 12 euro). Il libro è uno di quelli che lasciano sensazioni vivide, tipo il freddo pungente di una mattinata d’inverno, una corsa sotto la pioggia, o lo spettacolo insensato di una partita di pallone – e tutto questo nonostante l’evanescenza delle vicende narrate. Un mucchio di giorni così è il quinto romanzo di uno scrittore liminare, le cui precedenti quattro prove letterarie (tre delle quali parte di una trilogia sulla follia) hanno visto la luce tutte per lo stesso piccolo editore. Vista la consapevolezza autoriale di Calvisi, trovo che la visibilità dei suoi lavori contrasti col loro valore, partendo da queste premesse inevitabilmente siamo finiti a parlare, oltre che dei romanzi, delle loro vicende editoriali. A volte l’invisibilità è specchio della pregnanza dei testi, in altri casi è la dimostrazione del loro peso specifico, in altri ancora è causa di scelte sbagliate.

    Un mucchio di giorni così è la storia di un uomo decostruita e riproposta attraverso cinque momenti fondamentali/qualunque della sua vita. Sin dalle citazioni in epigrafe questo è messo in chiaro: «I giorni fondamentali nella vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume». Il romanzo racconta in modo arioso questi episodi, la sua bellezza, per me, è nell’onestà che dimostra la tua scrittura. Voglio cominciare chiedendoti come ti è venuta l’idea di scrivere questo libro.
    La prima cosa che mi è venuta in mente è stata proprio l’idea della “decostruzione” di una storia che è veramente una storia qualunque. In questa struttura, o se preferisci in questa de-struttura, si trova il senso del libro e quindi di ciò che mi premeva dire, e cioè la mia percezione dell’esistenza, che io evidentemente non intendo come un flusso ordinato di avvenimenti, ma come un eterno presente solo in apparenza razionalizzato dalla memoria che tra l’altro è, per definizione, individuale e quindi arbitraria e quindi fallace. È per questo che i momenti della vita del protagonista raccontati nel romanzo sono solo cinque (se penso alla mia vita non sono sicuro di ricordarmene molti di più), ed è per questo che il “montaggio” degli episodi è, per così dire, non convenzionale. Come diceva Edoardo Sanguineti, uno si fa la letteratura che vorrebbe leggere, e a me non piacciono i libri che “dicono”, ma quelli che “mostrano” un sentimento del mondo, anche e soprattutto per via allegorica. Credo poi che un altro degli aspetti peculiari di Un mucchio di giorni così sia rappresentato dalla lingua che ho utilizzato, una lingua che è molto semplice, molto colloquiale, e anche molto diversa da quella dei miei precedenti lavori. Penso tra l’altro che questa semplicità della lingua, questo rifiuto del cliché, dell’effetto e del patetismo nonostante il sentimentalismo di fondo della storia narrata, abbia spiazzato alcuni editor, che hanno rifiutato il libro adducendo una certa mancanza di mordente. A mio avviso, è evidente, si tratta di una lettura un po’ superficiale.

    Perché hai trovato difficoltà per pubblicarlo?
    Non è proprio così. Ho terminato Un mucchio di giorni così nell’aprile del 2011 e nella prima settimana di agosto del 2012 (quindi poco più di un anno dopo) era già stato pubblicato dall’editore pescarese Quarup. Ho avuto complessivamente sei o sette rifiuti. Einaudi mi ha tenuto in sospeso per un paio di mesi e poi ha detto di no, Minimum Fax ha risposto quasi subito con una lettera garbata, ma sono gli unici editori medio-grandi che mi hanno gratificato dell’attenzione. Mi sono allora rivolto a editori più piccoli tra cui, appunto, Quarup, che nel giro di un paio di settimane ha accettato il libro, ed è stato il primo, perché successivamente mi sono arrivati un altro paio di responsi positivi, quando però mi ero già impegnato. Aggiungo che, in generale, avendo scritto sette libri per quattro editori diversi e non avendo niente di inedito nel cassetto, non mi sento di appartenere alla categoria degli scrittori che hanno difficoltà ad essere pubblicati. Il problema, semmai, è quello di essere considerati dai grandi editori, come dicevo prima, o dai recensori, e, infine (ma di questo si dovrebbero lamentare più che altro i miei editori), da chi si occupa di distribuzione. La situazione è la seguente: la maggior parte dei grandi editori si affida, per scovare testi e autori, alle numerosissime agenzie letterarie spuntate negli ultimi anni e quindi i manoscritti “spontanei” arrivati in redazione passano direttamente dalle mani del postino al cestino dei rifiuti; i recensori, mi riferisco a quelli che sono in grado orientare almeno un pochino i gusti dei lettori, devono pur mangiare, e allora si occupano solo dei soliti autori, dei soliti libri e, soprattutto, dei soliti editori. I distributori, poi… Tu lo sai meglio di me perché conosci l’argomento a fondo. Se Feltrinelli acquista Pde qualche problema si pone, no?

    Condivido l’approccio alla letteratura di cui parli nella prima risposta, anche se lo trovo in parte smentito nel resto della tua opera: tre degli altri tuoi quattro romanzi brevi fanno parte di una trilogia sulla follia in cui lo stile della narrazione e la lingua erano sì al centro dell’opera, ma le vicende si distendevano in soluzioni narrative di impianto classico (anche se mascherate, come nel Principe di Persia). La differenza in Un mucchio di giorni così per me è segnata dalla tua crescita autoriale – la prosa è più libera e più matura, probabilmente più vicina al nucleo del tuo umano sentire – eppure, forse a causa della sua paradossale semplicità, del libro può essere difficile parlare: è scomodo far capire un romanzo fatto di cinque momenti, disposti in ordine casuale, costituiti in buona misura di sensazioni e ricordi. Sarebbe un errore ma io temo che il ragionamento alla base di alcuni rifiuti che hai avuto si nasconda dietro alla domanda «come lo vendo?».
    La struttura e la lingua dei miei libretti precedenti erano ben diversi, certo, e tuttavia erano sempre la struttura e la lingua a decifrarne il significato, quindi in questo senso c’è una contiguità molto stretta, questo te lo voglio segnalare al volo! Invece, relativamente all’implicita domanda («come lo vendo?») che starebbe alla base di alcuni rifiuti incassati da Un mucchio di giorni così, ti dirò che la ritengo del tutto plausibile e anche accettabile. Ma è una domanda che può essere suscitata da ogni mio lavoro, ed è per questo che non ho mai cercato o aspettato più di tanto un grande editore, perché nel mio caso non avrebbe fatto la differenza. Il geometra sbagliato, grazie al passaparola (credo generato da un paio di belle recensioni, e qui si ritorna al discorso di prima, relativo alla responsabilità del critico) ha esaurito la sua prima edizione di mille copie. Ne avrebbe vendute molte di più se fosse stato pubblicato da Minimum Fax?

    È vero, Un mucchio di giorni così è uscito relativamente presto rispetto alla fine della stesura, ma tutti e due sappiamo che il punto non è pubblicare tanto per farlo, ma trovare la giusta collocazione editoriale – e a mio avviso per questo libro forse sarebbe valsa la pena di aspettare un editore più noto. L’altro giorno parlavo di te con uno scrittore abbastanza affermato: si stupiva del fatto che tu avessi pubblicato i tuoi precedenti quattro romanzi tutti con lo stesso micro-editore.
    Quando Round Robin (che ha pubblicato Il geometra sbagliato) mi ha proposto di pubblicare gli altri libri della trilogia (Maledizione del Sommo Poeta e Il principe di Persia) ho accettato a cuor leggero, in primo luogo perché ero contento dei risultati ottenuti dal Geometra, e poi perché ero consapevole del fatto che si tratta di testi particolari, per palati particolari, che non potranno mai vendere miliardi di copie, e quindi è andata bene così. E poi il mio vero, grande obiettivo è quello di essere riscoperto post mortem, e in quest’ottica la pubblicazione in vita dei miei romanzi, per essere perfettamente congrua al progetto, deve avvenire tramite editori minuscolissimi!

    A parte gli scherzi, se per tre di quei quattro libri può valere il discorso della trilogia (e comunque vale fino a un certo punto) per il quarto no, e in un certo senso la domanda si ripropone anche per Un mucchio di giorni così, l’editore è un altro ma la sua potenzialità di penetrazione in libreria non credo sia tanto migliore. Quando dici che non hai niente di inedito e che ci hai messo poco anche a pubblicare questo, secondo me una certa ansia da pubblicazione la riveli, e non è una buona cosa perché pubblicare tanto per farlo genera frustrazione, in certi casi si rischia di rendere pubblico il libro solo per modo di dire. Accennavi ai problemi di distribuzione, ma li conosci anche tu, a volte non sarebbe meglio tenere nel cassetto i manoscritti fino a che non trovano un editore in grado di sostenerli? Un mucchio di giorni così è un libro bello, ma io non so in quanti lo leggeranno. Quello che dici dei rapporti tra editori e agenzie in buona parte è vero, ma allora perché non ti rivolgi anche tu ad una agenzia?
    Federico, quella che tu chiami “potenzialità di penetrazione in libreria” (l’espressione mi ricorda la storia di quel tombeur de femmes che corteggiava soltanto le commesse di Feltrinelli) in realtà non esiste per libri come i miei, ma soltanto per Franca Valeri, l’insopportabile Littizzetto e simili. Tra le 500/1000 copie che posso raggiungere con un editore piccolo e le 3000 che posso raggiungere pubblicando, per dire, con Einaudi io non ci vedo tutta quella differenza. La differenza è nel prestigio dell’editore e nell’attenzione, lo ripeto per l’ennesima volta, della critica. La critica ha un ruolo determinante. Uno dei libri più belli del 2012, secondo me, è Città distrutte, di Davide Orecchio, pubblicato (dopo un’impressionante serie di rifiuti da parte degli editori più importanti) dal piccolo editore Gaffi. In libreria questo libro non si trova, non c’è mai stato verso di trovarlo. Eppure, per fortuna, qualche critico avveduto (il primo è stato Daniele Giglioli del Corsera) si è reso conto della qualità della scrittura di Orecchio, e l’attenzione ha generato un movimento che ha portato Città distrutte a vincere un premio Mondello e a raggiungere i lettori, che magari lo hanno acquistato seguendo percorsi alternativi alla libreria dove, lo confermo, continua a non essere reperibile. Insomma, i modi per poter ottenere visibilità anche partendo da un piccolo editore ci sono, basta poter contare su critici onesti intellettualmente, che non inzeppano le riviste letterarie e gli inserti dei quotidiani con l’ennesima recensione al libro di Camilleri, tanto per fare il primo nome che mi viene in mente. Per quanto riguarda il ricorso alla figura dell’agente,io non lo escludo a priori, ma il punto è un altro, anzi sono due. Il primo è economico. Il rapporto per cui io ti devo pagare per farti leggere il mio testo mi sembra sbilanciato. Se mandi il tuo lavoro in lettura a Grandi & Associati, devi spendere una cifra molto vicina ai 500 euro. E l’unica certezza che hai è che Grandi & Associati, indipendentemente dalla qualità del tuo testo, ti farà da agente soltanto in casi estremamente rari. Insomma, come si direbbe a Roma, mi pare una sòla. Il secondo è, per così dire, legato alla mia etica di scrittore e lettore. Parto da lontano. A me piacciono i talent show. Mi piacciono davvero, non è uno snobismo da pseudo intellettuale. Accedono a questi talent show ragazze e ragazzi che a me sembrano molto dotati, ma poi nel corso delle settimane il talento viene soffocato da interventi (da parte dei trainer, dei vocal coach) che tendono a uniformare lo stile e a fare di questi ragazzi dei cloni gli uni degli altri. La stessa cosa temo avvenga quando hai a che fare con un’agenzia. Oggi l’editore chiede una determinata cosa e l’agente preme affinché tu produca proprio quella cosa lì. Attenzione, non è il mercato a chiedertela, ma l’editore, che spesso, quasi sempre, prende delle topiche. Oggi, per esempio, si parla di letteratura della precarietà (anch’io sono stato malauguratamente ascritto a questa temperie). E allora vai col tango dei trentenni precari che scopano tantissimo e svolgono lavori assurdi. Come se la precarietà non fosse ontologica, esistenziale, ma l’esito di una congiuntura economica e della sottoccupazione. Tutte cazzate. A trentacinque anni mi sono ritrovato nella merda. Sembra l’incipit di un romanzo che segna la qualità dei nostri tempi, e invece è la parafrasi dei primi due versi della Divina Commedia.

    Non credo che pubblicare per un micro-editore sia più o meno lo stesso che uscire con Minimum Fax, anzi immagino che se Minimum Fax di un libro vendesse sette-ottocento copie lo considererebbe un fallimento e si domanderebbe dove ha sbagliato. Inoltre ritengo che esistano recensori non schiavi delle dinamiche marchettare, ma non penso che spostino tutte le copie che dici tu, per quello ci vuole un cocktail di recensioni, passaparola, più la presenza dei libri in libreria quando le prime due circostanze si verificano. In generale credo che un buon parametro possa essere il fatto di venire pagati per quello che si scrive. E non per i soldi in sé, che pure contano (io, purtroppo, ti sto intervistando gratis, ma penso che di norma sarebbe bene scrivere o perché pagati o per fini promozionali, perché il pagamento garantisce il tuo lavoro: un editore che ti ha dato un anticipo stai sicuro che si impegnerà per rientrare dell’investimento fatto su di te, uno che tira duecentocinquanta copie non avrà tutte queste premure).
    Lo credo bene che per Minimum Fax (e per ogni editore di quelle dimensioni) vendere 700 copie o 3000 non sia la stessa cosa, perché gli eventuali incrementi e decrementi li devi moltiplicare per tutti i libri del catalogo. Ma per un singolo scrittore è abbastanza indifferente, visto che in entrambi i casi non ci campi. Secondo me, tra l’altro, ci sono anche scrittori considerati grandi, pubblicati magari da Einaudi e Mondadori, i cui libri giacciono nei magazzini dopo essere stati venduti nell’ordine di poche centinaia di copie. E poi per me le piccole case editrici, anche quelle che stampano poche copie, sono importanti perché nei casi migliori fanno scouting. Starebbe agli editori grandi rilanciare le operine degne che magari sono state soffocate dal mercato (ehi! Il riferimento alla mia trilogia dei matti è puramente casuale!). Ad ogni modo, per me, la questione vendite e guadagni, in questi termini, è mal posta. Intanto perché per uno scrittore che aspiri ad essere anche autore l’obiettivo principale deve essere, banalmente, la scrittura. E poi sarò monomaniaco, ma l’unica risorsa per cercare di “aprire”, di rendere meno sclerotico un apparato che fa strada solo ai Bignardi, ai Volo e ai Faletti, è in primo luogo l’attenzione dei critici. Prendi le riviste che si occupano di musica e dischi. Ogni numero contiene decine e decine di recensioni, anche e soprattutto di dischi prodotti da case discografiche indipendenti, e quindi di dischi che devi andare a comprare nel negozietto o che devi acquistare on line. Ti dirò, anzi, che i negozi ordinano i dischi in base alle recensioni delle riviste, e questo è un aspetto importante, non sottovalutarlo. I bibliofili esistono, sono altrettanto fanatici (in senso buono) e appassionati dei musicofili. Pertanto, analogamente, se un buon libro pubblicato da un editore sconosciuto viene recensito da Tuttolibri, vuoi che i trecento lettori (mi tengo basso) che dopo la recensione vanno a richiederlo in libreria oppure on line non facciano in modo che qualcosa, nella distribuzione di quel libro, cambi? Eleva questo meccanismo a sistema, esportalo agli inserti dei grandi quotidiani e dei magazine nazionali, fallo arrivare alle riviste letterarie più importanti e alle trasmissioni degli orridi fabifazi. Occuparsi davvero dei libri, del maggior numero di libri possibile, è l’unico modo per arginare la massimizzazione di cui parlavo, massimizzazione che tra l’altro, al di là del fatto che io sono il principe degli scrittori non cagati e incagabili (e quindi sono in parte interessato al fenomeno), rappresenta un impoverimento culturale.

    Torniamo al tuo ultimo libro. Intanto chiariamo che in alcuni casi una trama, ossia qualche punto di contatto tra i diversi capitoli, c’è, ad esempio è facile immaginare che il presunto omicidio e il carcere siano vicende consequenziali. Detto questo la cosa che meglio è rappresentata è, per quanto l’affermazione sembri paradossale, la vita di un uomo. Per concludere vorrei spingerti a parlare di un paio di temi (e luoghi) che nel libro a tratti diventano dominanti: Genova e il rapporto col padre.
    Non mi piace parlare dell’aspetto per così dire contenutistico di Un mucchio di giorni così, perché tutto quello che volevo dire sull’argomento è scritto nel libro. È ambientato a Genova, dove sono nato e dove vivo, perché è un posto che conosco bene, e poi perché è una città abbastanza paradigmatica di quella precarietà di cui parlavo prima. Una precarietà che, ripeto, va intesa in termini che oserei definire esistenziali, più che storici. La stessa cosa può dirsi del tema del padre. Il padre è il limite e la terra dove affondano le radici di ognuno di noi. Al protagonista del libro questa radice si divelle e quindi gli salta tutto. E dunque anche il padre, come accade spesso nelle narrazioni, è una figura simbolica. Nel libro viene descritto come un leader della rivolta studentesca del ’68 diventato, nella maturità, un convinto neoliberista. Non è una parabola casuale, mi sembra che rispecchi un itinerario comune a molte persone della generazione precedente alla mia.

  4. Camilla Pelizzoli

    Un mucchio di giorni così – Angelo Calvisi
    di Camilla Pelizzoli, Bibliomania, 13 gennaio 2013

    Genova è sfondo (e in parte anche protagonista) della storia del nostro narratore, raccontata attraverso gli episodi più importanti della sua vita: un’esistenza comune divisa tra lavoro, donne, calcio e attualità, eppure anche un’esistenza come quella di nessun altro.

    Un mucchio di giorni così è un libro che rimane impresso per i suoi dettagli più che per la sua storia in generale. Non lo dico con accezione negativa, anzi: è la stessa natura episodica del romanzo a spingere il lettore a considerare ognuna delle cinque parti come un capitolo a sé stante, che solo alla fine si può ricollegare nel giusto modo ai rimanenti.
    Questa sensazione, sicuramente, è data anche dai piani temporali sfalsati: le parti raccontano di momenti determinanti ambientati tra il 1995 e il 2012 (passando per il 2001, il 2007 e il 2009) ma l’ordine non è cronologico. Il lettore, quindi, ha una prospettiva molto particolare sulla vita del nostro narratore, e proprio questa possibilità gli permette di cercare negli avvenimenti futuri conferme (o smentite) di ciò che abbiamo letto sul passato del protagonista, e di renderci conto, passando agli avvenimenti passati, di come si è arrivati a certe situazioni future – talvolta con la speranza che ci possa essere un cambiamento, o la voglia di dire al narratore di godersi il momento e la gioia che sta vivendo, perché non sarà eterna.
    Mi è piaciuta molto questa impostazione e trovo sia stata sfruttata nella giusta maniera: in particolare, mi ha colpito un certo colpo di scena (di cui ovviamente non vi parlerò) davvero inaspettato, che mi ha costretta a leggere l’ultimo capitolo accompagnata da emozioni che decisamente non pensavo di provare, quando ho cominciato il libro.

    La vita del nostro protagonista non è stata facile e non è per nulla rosa e fiori. Pur non indulgendo in patetismi vari, l’autore riesce a rendere la sensazione di tristezza, vuoto e “non-appartenenza” del narratore, insieme ai suoi momenti di gioia ritrovata, o inaspettata.
    E’ un romanzo introspettivo che si rivela attraverso la narrazione di fatti quotidiani, come una partita di calcio, un incontro che può far sbocciare qualcosa di più, un impegno familiare, oppure anche attraverso fatti eccezionali, come il G8 (il romanzo è ambientato a Genova, che ha uno spazio speciale in questo libro); e si svela anche attraverso le scelte stilistiche dell’autore, mediante la narrazione in prima persona che a tratti assume quasi la forma del flusso di coscienza, passando da un argomento all’altro come succede nei nostri pensieri: a volte con leggerezza, a volte viscosi. Scivolando tra un ricordo e l’altro, scopriamo man mano il passato del protagonista, spesso sorprendendoci, sempre sviluppando empatia verso il narratore.
    Calvisi usa uno stile piano, semplici, dal lessico espressivo ma senza slanci lirici – perfetto, secondo me, per quello che mi è sembrato fosse il suo intento. E’ adatto alla psiche del personaggio ed è evocativo proprio perché non si sforza troppo per esserlo.

    Tuttavia, pur avendo tutti questi pregi, credo che ci sia ancora del potenziale inespresso in questa storia e, in parte, nello stile di Calvisi. Come dei fili che, se tirati, avrebbero dato una marcia in più al libro… Un peccato, ma d’altronde non so nemmeno se definirlo come vero e proprio difetto. E’ una mia sensazione, che mi ha accompagnata nel corso della lettura.

    In conclusione, il romanzo di Calvisi è molto particolare, riflessivo eppure legato ad avvenimenti concreti, realistici. Non credo possa piacere a tutti, in particolare per lo stile di cui ho parlato; però, visto che per me è stata una bella scoperta, ho deciso che mi terrò informata sui futuri libri di questo autore!

    “Io mi rannicchio in un angolo. L’amico non si inclina più. Non trovando il mio sostegno comincia ad oscillare, destra e sinistra più frequentemente, talvolta avanti e indietro. Rannicchiato nel mio angolo, mi lascio andare. L’eterno riposo dona loro signore, donalo a ognuno, un po’ meno a mio padre. Sveglialo se dorme e ricordagli le cose che ci siamo persi. Non un tormento, signore, Solo una seccatura ogni tanto. Solo un pensiero notturno che ti giri nel loculo e fai fatica a riprendere sonno.”

    Leggi la recensione nella sua pagina web

  5. Andrea Broggi

    Angelo Calvisi – Un mucchio di giorni così
    di Andrea Broggi, Lettere e Giorni, 4 dicembre 2012

    L’immaginarmi ad aprire un cassetto per tirarvi fuori e spulciare le foto di adolescenza/giovinezza, mi suscita sempre una miscellanea variegata di sensazioni. E l’idea del richiamo istantaneo offerto dalla foto che è subito tra le mie mani e sotto gli occhi, non è che un inizio, al quale si accosta il viaggio casuale del pensiero che si muove per associazioni, il cui fine è trasportarmi ben oltre i bordi di quel fermo immagine fisico. Manciate di secondi lunghi come intere storie scalene.

    Questo è più o meno quel che accade in questo breve quanto intenso libro in cui si sciolgono danzando avanti e indietro e intrecciandosi continuamente cinque istanti di vita di cinque differenti anni, raccontati con la voce di Paolo, il protagonista malinconico e lisergico, piegato nei propri sentimenti oltre che velleità dal quotidiano in cui vive, che poi è anche il nostro. Storie che avvicinano sempre più il lettore a riconoscerle e sentirle a pelle in quel loro modo di esprimere un atteggiamento, o nel percepire le sensazioni, o in quelle definizioni attraverso cui il protagonsta del romanzo scioglie il reale. Tutto questo mentre respira in ogni pagina la città di Genova, mentre i quartieri nel corso degli anni trascorsi nel libro diventano altro e tutto vortica e la vita da presente diventa ricordo sbiadito o sopraffatto da quell’alterazione propria delle sovrapposizioni temporali.
    Un mucchio di giorni così è un libro che, tra una partita di calcio, l’ultimo taglio di capelli della carriera di un barbiere, aggressioni violente, i giorni del G8, amori dal groppo in gola, l’inaugurazione di un grande store musicale della catena MEGASTORE alla presenza di Valeria Rossi e molto altro ancora, coercizza ogni attenzione, ogni simpatia e lo fa con una morbidezza suadente anche negli stridii che descrive, anche nelle scene più grottesche, più tese. La sua è la bellezza perfetta della naturalezza, che l’autore ottiene sottraendo alla scrittura ogni fronzolo, una semplicità accurata che tratteggia un personaggio e una storia per molti versi romantica. Immagini nitide, come quella del sentire le trecce di una lei che fu sul proprio petto mentre si fa l’amore, che ognuno di noi si porta addosso per sempre.
    E la naturalezza, si sa, vince sempre, anche nella sconfitta.
    Buona lettura!
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  6. Silvia Lombardo

    Il braccio violento del precario
    di Silvia Lombardo

    Rifletto da qualche giorno su quanto nelle tante narrazioni sul precariato che ho avuto l’occasione di frequentare in questi anni, siano sempre rintracciabili germi di voglia di delinquere, di violare, di spaccare, rapire e rubare. Una sublimazione a mezzo penna che riflette giovani lavoratori estremamente umani nel provare rabbia e eccezionalmente saggi nello sfogarla narrativamente.

    Dalla più celebre Paola Cortellesi che in uno dei primi spettacoli teatrali sul precariato “Gli ultimi saranno gli ultimi” impersona una giovane futura mamma che impugna la pistola e fa irruzione nell’ufficio dove viene quotidianamente presa abbondantemente per i fondelli, alla storia dell’impacciato Mauro, impersonato da Marco Cortesi, nel nostro StRagisti – La ballata dei precari, dove un ragazzo sfruttato gratis perde la testa e comincia ad avere le allucinazioni. Vede la sua coscienza che, da moderno Lucignolo, lo istiga a vendicarsi del suo ultimo datore di lavoro. In “Tutta la vita davanti”, film di Virzì tratto dall’ormai celebre libro di Micaela Murgia, non si arriva a una delinquenza vera a propria da parte dei precari, ma la protagonista si ingegna a trovare mille modi per convincere le persone che chiama dal call center, fingendosi anche ex-compagna di scuola dei nipoti. Con la coscienza che pesa e l’affitto da pagare. C’è il cortometraggio di cui parlai tempo fa “Circuito Chiuso”, dove un cinquantenne costretto ancora ad andare avanti a contratti precari diventa violento con la moglie. In “Un mucchio di giorni così” di Angelo Calvisi, racconto che si snoda avanti e indietro negli anni della vita di un precario quarantenne, c’è anche un capo del personale che viene ridotto in fin di vita dopo un’aggressione. Di cui, manco a dirlo, viene accusato il protagonista.

    C’è poi il libro che mi ha portato a questa riflessione “Dimmi che c’entra l’uovo” di Fabio Napoli, edizioni Del Vecchio. L’autore finiva le elementari mentre io cominciavo a lavorare: dura constatazione vedere che ora invece siamo esattamente sulla stessa barca.
    Il protagonista è Roberto Milano, un giovane precario che fa quattro lavori – dà ripetizioni, consegna pizze in bici, serve cappuccini in un bar e fa il figurante nei film porno – fin quando non ne perde tre in un colpo solo. In un assurdo colloquio di lavoro per un fast food – quei colloqui allucinanti di questa società pazza per la più facile e controllabile valutazione quantitativa e mai qualitativa – conosce Marianna, laureata e operatrice call center, che in una notte lo risucchia nel vortice di quella che, ancora non sanno, diventerà “La banda dei precari”.

    E ti ritrovi a misurarti con il racconto di un giovane estremamente normale, pacato, che avrebbe “tutte le carte in regola” e che si ritrova a fronteggiare una situazione assurda. Non tanto quella del rapinatore (di sè e Marianna dice “due mimi vestiti di nero che vogliono fare l’imitazione dei ladri senza riuscirci), ma quella di un futuro le cui certezze si misurano a malapena in minuti. “Umberto smette di parlare. Mi guarda. Ho voglia di dirgli che non c’è tempo per fare la rivoluzione con quattro lavori, l’affitto e le bollette da pagare. Il massimo che riesco a pensare è a quello che dovrò fare nelle prossime ore […] In un Paese normale sarebbe stata un’ora e mezzo di straordinario, ma il contratto prevede quattro ore a giornata tutto il resto sono cazzi tuoi. Mario (il capo) è uno preciso” Mario è uno dei tanti datori di lavoro che abbiamo conosciuto noi precari “Mario è uno preciso, mette chiunque sotto contratto a progetto. Scadenza ogni tre mesi. Ci tiene a queste cose. Con me – dice sempre – tutti devono essere in regola. Dal canto mio. ancora non ho capito quale possa essere il progetto dentro a un bar”. Così Roberto si ritrova a fare il rapinatore, vestito da mimo. Storie di potenziale delinquenza istigata, quindi, che si rivolge contro i capi, il “sistema”, che si arma solo per bisogno. Perché i precari sono mostruosamente gente perbene.

    E se devono usare violenza, la usano contro loro stessi. Il braccio violento del precario è quelli di uomini che si sono impiccati o dati fuoco. Di Carmine Cerbera che si è suicidato qualche giorno fa, sgozzandosi con il coltellino con cui tagliava le tele su cui dipingeva. Un insegnante precario di 48 anni, ulteriormente avvilito dagli ultimi provvedimenti sulla scuola. Ho sentito il racconto di Massimo Gramellini sulla sua morte: non riesco a togliermi dalla mente l’immagine della moglie che tenta di aprire la porta del bagno in preda alla disperazione, avendo compreso cosa il marito stia facendo oltre quel muro. Un orrore senza consolazione, chi ha toccato con mano il suicidio lo sa.

    E sentire su Repubblica.tv Profumo che dice di essere vicino alla famiglia e di “non aver fatto nulla ad oggi per peggiorare la situazione dei precari della scuola” fa tanta rabbia.

    Perché chi viene investito della responsabilità di guidare le istituzioni non dovrebbe accontentarsi di non peggiorare la situazione. Così come fanno migliaia di precari che nella disperazione dei mesi di disoccupazione, delle buste paga mezze vuote, non vanno in giro a fare una strage, peggiorando la situazione. Vanno avanti con dignità. Oppure drammaticamente, l’unico gesto violento che compiono, è quello rivolto contro loro stessi.

  7. Amina Sabatini

    Un mucchio di giorni così
    di Amina Sabatini, My Day Worth, 12 ottobre 2012

    Ho avuto la fortuna di incontrare Angelo Calvisi proprio oggi pomeriggio alla Libreria La Zona di Siena dove è venuto a presentare il suo libro, Un mucchio di giorni così, che ho acquistato quando Valentina, la titolare della libreria, mi ha invitata all’evento e che ho divorato in pochi giorni.

    La prima citazione che ha fatto per introdurre il suo libro e spiegarci l’idea che ne è alla base è questa di Ennio Flaiano, riportata all’inizio del libro: ‘I giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono cinque o sei in tutto. Gli altri fanno volume.’ Ha poi aggiunto Calvisi che ‘ha voluto dare a questo libro una struttura allegorica della vita perché siamo sconosciuti a noi stessi’.

    Protagonista di questa struttura allegorica è Paolo, un quarantenne genovese che racconta di sé bambino cresciuto lontano dal padre, ragazzo in cerca di lavoro, uomo disoccupato affetto di glicemia, tradito dalla fidanzata, accusato di omicidio, amico d’infanzia di Andrea, tifoso della sua squadra del cuore.

    E’ proprio allo Stadio che si svolge il primo episodio raccontato e che mi ha subito conquistata forse perché sono una tifosa che non si perde mai una partita quando la sua squadra gioca in casa e quindi mi sono riconosciuta in quella ‘postura obliqua, pendente, alla ricerca di un equilibrio impossibile’.

    Paolo è una persona che ‘asseconda gli eventi e assecondandoli elimina le aspettative’ ma al tempo stesso è capace di sentirsi un privilegiato nel fare come lavoro, ad un certo punto della sua vita, quello di ‘trasmettere agli altri che non è obbligatorio avere paura’. Sarà perché la ‘paura’ è un tema che mi sta a cuore, come ho detto questa sera alla presentazione; ma per me il colpo di genio del libro è proprio in questa presa di coscienza capace di trasformare la vita apparentemente precaria di Paolo; ‘apparentemente’ perché, sostiene l’autore, non esistono situazioni ‘precarie’ ma è la vita stessa ad essere precaria per sua natura.

    La scrittura è razionale e al tempo stesso di cuore, non patetica (l’unica allegoria voluta ed evidentemente svenevole presente nel libro è subito messa al bando dall’autore stesso tramite il protagonista) e per niente aerea (ho scoperto che nel mondo dell’editoria dei grandi numeri ‘area’ sta per ‘senza mordente’ quindi non pubblicabile…)

    Gli episodi raccontati sono accaduti in uno spazio temporale ben definito, dal 1995 al 2012; e se anche non vengono raccontati rispettando l’ordine cronologico siamo comunque in grado di orientarci temporalmente grazie agli episodi realmente accaduti, di cronaca e non, che vengono citati.

    È un puzzle narrativamente ben riuscito, secondo me; dove i pezzi sono tutti incastrati bene.

    Volentieri leggerò ancora di questo autore che ringrazio per la dedica: ‘Ad Amina, grazie, grazie, grazie della tua attenzione. Angelo’.

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  8. Mauro Maraschi

    Un mucchio di giorni così
    di Mauro Maraschi, Mangialibri

    Genova, 2007. Paolo ha quarant’anni e dirige un negozio di musica della catena Mega Store. Dopo dieci anni di silenzio, il padre ricomincia a telefonargli, “come se fosse passata soltanto una settimana”, per poi sparire nuovamente qualche mese dopo. Quando Paolo scopre che è morto gli tornano a galla i ricordi di un’infanzia dimenticata. Approfittando del licenziamento, decide così di andare in Sardegna, nel paese natio del padre, per le pratiche dell’eredità: sull’isola, però, troverà molto altro. 1995. Paolo va per i trenta, vende polizze assicurative ed è stato lasciato da Caterina, per compiacere la quale ha perso nove chili in due mesi cibandosi solo di semi zucca e Pocket Coffee. Vittima di cali glicemici, svarioni e collassi, si ritroverà a perdere la memoria proprio davanti a un delitto. 2001. Paolo è appena stato assunto al Mega Store, il che inficia la sua passione per i gruppi di nicchia: “a furia di ascoltare la musica orrenda in negozio quando arrivo a casa ho bisogno soltanto di silenzio”. Coinvolto dall’amico Andrea nella circuizione della cantante Valeria Rossi (è l’anno del tormentone “Sole, cuore, amore”), Paolo assiste ai preparativi del G8, immaginando solo vagamente l’apocalissi che incombe sull’area blindata. 2012. Paolo è un operatore sociale, sta con Maddalena e si è messo nei guai con un’amante, il cui marito, un vigile del fuoco, “decorato per atti d’eroismo”, “il perfetto prototipo dell’uomo d’acciaio”, lo minaccia di morte. 2009. In carcere, dove ha trascorso tre mesi prima che l’accusa venisse ritirata, Paolo si procura un infortunio che lo porterà a scoprire altro sulla propria salute, ad interrogarsi sulla vita e a ritrovare il senso e la speranza…
    Sembrano le sinossi di cinque racconti autonomi, e invece è Un mucchio di giorni così, un romanzo frammentato non per capriccio ma per necessità, una storia – specifica quanto universale – che andava raccontata in quest’ordine e in nessun altro, mettendo in discussione le stesse dinamiche di causa ed effetto. Succede infatti, in Un mucchio di giorni così, che eventi passati sembrino la causa di fatti recenti, che nell’inutile tentativo di ricostruire il senso della vita presente e ricordi si intreccino, instillando il dubbio che si stia vivendo in un sogno – o peggio in una barzelletta. Questo è ciò che succede ai cinque Paolo, ognuno con un lavoro, un costituzione e una situazione sentimentale diversi, accomunati però dall’ostinazione a vivere (“io non mi abbatto mica, assecondo gli eventi e assecondandoli elimino le aspettative”) e dall’indistruttibile amicizia con Andrea. Una sorta di teoria degli universi paralleli che conduce a un’unica inevitabile conclusione. E non importano affetti perduti e malattie, licenziamenti e soprusi, colpe e baci: nulla esiste, se non il presente, quando il passato è una bugia e il futuro una partita giocata ai rigori. Angelo Calvisi, genovese, classe ’67, ci invita a comporre un puzzle la cui immagine finale è un quadro metafisico. La struttura del romanzo, composta da cinque capitoli autoconclusivi ma funzionali l’uno all’altro, è inappuntabile. Meno accattivante lo stile, idoneo sì a un piglio nichilista, però a tratti troppo asciutto e descrittivo. Ricca di non detti, la narrazione di Calvisi nasconde le emozioni dietro le azioni, onde evitare qualsiasi cliché. Come nella scena del cinghiale: irrilevante nell’economia generale, eppure carica d’ansia, tanto da portare Paolo allo svenimento. Al contrario, scene di panico come gli scontri del G8 sono una sequenza di fotogrammi sfogliata senza empatia. In generale, Un mucchio di giorni così, nella sua stringatezza, è riuscito sotto ogni punto di vista e Calvisi, alla sua quinta fatica (le precedenti sono tutte per Round Robin), un autore da scoprire.

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  9. Sara Booklover

    Recensione: “Un mucchio di giorni così”
    di Sara Booklover, Il regno magico dei libri, 4 settembre 2012

    La mia opinione: L’autore Angelo Calvisi in questo romanzo fornisce al lettore uno spaccato contemporaneo e tristemente reale di quella fascia generazionale di transizione che vive “alla giornata” senza poter contare su un futuro migliore.
    Il protagonista è Paolo, quarantenne alla deriva come molti, con un lavoro precario e una situazione sentimentale approssimativa, che in prima persona ci racconta di sé stesso in vari momenti della sua vita, sullo sfondo di una Genova claustrofobica che forse ha già dato troppo e che ora non ha più nulla da offrire.
    Addentrarsi in questo romanzo è un’esperienza che sicuramente non dona sollievo, non vi troverete una piacevole storia d’evasione dove potersi rifugiare dalla realtà quotidiana. Qui la realtà quotidiana è fin troppo marcata, la sentirete alitarvi sul collo ad ogni parola. Inutile pure, come tenta il protagonista, rifugiarsi nella stereotipata passione calcistica sperando che i problemi svaniscano con la vittoria della propria squadra del cuore. “Un mucchio di giorni così” è come quei sogni che vorresti correre e non ci riesci, una storia di vita come tante, con ricordi, aneddoti, sogni infranti, un collage di emozioni e pensieri, che si snoda avanti e indietro nel tempo in maniera un po’ disordinata, iniziando dall’anno 2007 e retrocedendo al 1995, per poi nuovamente saltare dal 2001 al 2012, e concludendo infine con il 2009.
    Proprio a causa di questa struttura narrativa, che esula dall’ordine cronologico tradizionale, si fa un po’ fatica ad entrare nelle dinamiche della storia, si rimane spiazzati da questa sorta di “caoticità”, non si riesce subito ad empatizzare con il protagonista e con il suo fluire a ruota libera di pensieri, sciolto e rapido con un fiume in piena. Intendiamoci, il fatto che l’autore abbia tentato un’esposizione diversa dal normale, non è di per sé negativo, anzi, avrebbe potuto rappresentare un enorme pregio, un punto di forza trainante. Il problema è che espedienti di questo tipo creano una certa aspettativa nel lettore, si attende una svolta folgorante, un colpo di scena geniale che lascia annichiliti, qualcosa di potente o comunque di imprevisto, che dia un senso a questa scelta stilistica alternativa.
    Invece la storia lascia un gusto amaro: è stato interessante entrare fugacemente nell’esistenza di questo personaggio, è stato interessante assistere alla rappresentazione di questo scorcio di vita attuale, veritiero, disilluso, ma la sensazione a libro finito non è esattamente quello che ci si aspettava.

    E ora, per dare una migliore panoramica, passiamo a esaminare bene le varie parti che compongono il libro:

    Cover: L’immagine di copertina (uno scatto fotografico di un quartiere genovese) è adatta sia ai contenuti del libro che al titolo, ne ritrae la quotidianità di quegli ambienti.

    Stile di scrittura: La padronanza del linguaggio è ottima, da segnalare solo una piccola “concessione poetica” nell’uso della punteggiatura (a volte). Lo stile di scrittura è veloce, dinamico, ma in certi passaggi è ingarbugliato, perché i pensieri vengono esposti a ruota libera, forse un po’ troppo, e si accavallano gli uni sugli altri in maniera discorsiva, che ha comunque il pregio di evidenziare la narrazione in prima persona e rafforzarla.

    Idee alla base della storia: La tematica è particolarmente realistica, non posso dire originale, ma in certi generi letterari (come questo) non è caratteristica fondamentale, e viene sfruttata in modo genuino, apprezzabile il tentativo di uno sviluppo alternativo.

    Caratterizzazione dei personaggi: In questo libro l’unico personaggio che si impara a conoscere abbastanza a fondo è il protagonista, i personaggi di contorno non sono caratterizzati, sono solo nomi, ma ciò nonostante non se ne sente la mancanza, non è fondamentale approfondirli ai fini della storia.

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  10. Simone Ghelli

    Dimmi cosa c’entriamo noi con queste storie così
    di Simone Ghelli, Scrittori Precari, 24 settembre 2012

    Dunque si riparte, e quando si riparte si è sempre un po’ arrugginiti. Durante quest’estate non siamo però stati proprio fermi, l’avete visto anche voi, però io mi sono arrugginito lo stesso perché, vedete, avevo già pronta questa recensione con cui ripartire, e inavvertitamente l’ho cancellata mentre cercavo di copiare il testo.
    In questa recensione si parlava di questi due libri, che mi sono venuti incontro senza che fossi io ad andarli a cercare: uno è Un mucchio di giorni così (Quarup 2012) di Angelo Calvisi, l’altro Dimmi che c’entra l’uovo (Del Vecchio 2012) di Fabio Napoli.
    Due libri molto diversi, dal punto di vista della lingua e dello stile, ma che si muovono sullo stesso piano inclinato su cui stanno scivolando questi nostri anni.
    Calvisi srotola la sua storia per le strette vie genovesi, costruisce una struttura temporale dove il lettore si muove come su una scala irregolare (e anche qui non si può non pensare alla conformazione della città ligure), che va avanti e indietro negli anni. Apparentemente più lineare è invece l’approccio di Napoli, che non certo casualmente chiama il suo protagonista Roberto Milano e ambienta la sua storia a Roma: una capitale di cui, almeno fino alla svolta della storia, si vede ben poco, poiché risucchiata dal vortice di lavori precari che si devono fare per provare almeno a sopravvivere – una città che scorre per gran parte fuoricampo durante le corse in bicicletta a cui è costretto il protagonista per passare da un lavoro all’altro (da comparsa in film porno alle ripetizioni, per finire la sera a fare il barista).
    In primo luogo, ad accomunare i due libri è pertanto questa sorta di andare a zonzo perenne dei personaggi (che ricorda quanto diceva Gilles Deleuze a proposito dei protagonisti dei film del neorealismo italiano), che sembrano agiti dagli eventi e dagli altri: nel libro di Calvisi il protagonista finisce spesso a rimorchio dell’amico Andrea, col quale dà oltretutto l’idea di non avere niente a che spartire se non il lavoro, mentre in quello di Napoli il movimento sembra procedere sempre per inerzia, anche quando i protagonisti s’illudono di avere preso il controllo sulle proprie vite che mettono a repentaglio per rapinare negozi.
    Sono storie amputate, queste, che sembrano cedere da tutte le parti per la mancanza di un collante che le tenga unite (e quale chiave migliore di questa per rappresentare la generazione dei precari?), ma non sono storie di rese: forse di fallimenti, ma non di rese, perché almeno esplodono in un gesto liberatorio, in manifestazioni di violenza inattesa. In Un mucchio di giorni così questa esplosione giunge ancora più violenta, perché preparata dall’accumulo di soglie temporali che spingono affinché qualcosa ne salti fuori: e quel qualcosa è un’aggressione che riduce a un vegetale l’ex capo del personale del protagonista, che si “risveglia” davanti alla scena senza ricordarsi niente di ciò che è successo (verrà poi incolpato e si farà persino un po’ di carcere, finché una testimonianza, anch’essa improvvisa, lo riporterà fuori). In Dimmi che c’entra l’uovo il punto di rottura avviene invece durante un colloquio di lavoro in un fast food (e il titolo del libro è ripreso appunto da una domanda assurda riportata nel test somministrato ai candidati), quando il protagonista vomita davanti all’esaminatore il panino di cui doveva descrivere il gusto, prima di lanciarsi in un’esibizione che lascia esterefatti tutti quanti (compresi quelli che diventeranno poi due dei membri della “banda dei precari” che metterà su per fare le rapine).
    Siamo quindi davanti a due gesti liberatori che troncano la catena dei giorni insignificanti, sacrificati in lavori ai quali i protagonisti non si sentono minimamente legati – e da questo punto di vista il titolo del libro di Calvisi è davvero significativo, con quel così nel finale che denuncia persino l’impossibilità di dare una definizione di un tempo che si trascina avanti senza prospettive. Gesti liberatori dietro ai quali si agitano le ombre dei genitori: di un padre morto, di cui il figlio va a ricercare tracce in Sardegna, in Un mucchio di giorni così; di una madre che si sente solo per telefono, perché il protagonista rimanda continuamente il momento in cui andare a trovarla, in Dimmi cosa c’entra l’uovo. I genitori non sono certo il grande rimosso, poiché si fanno sentire eccome anche nella loro assenza, ma loro sì che sembrano essersi arresi: perché sono morti senza essersi più fatti vedere, e per risarcimento lasciano possedimenti da amministrare (nel libro di Calvisi); o perché si accontentano delle bugie al telefono, di sentirsi dire quello che vorrebbero, che i figli in fondo stanno bene (nel libro di Napoli).
    Due romanzi, dunque, che non si limitano a descrivere una società italiana ormai ridotta in macerie (simboliche, certo, ma anche qui quanti punti in comune con il dopo guerra e la sua narrazione che procedeva a strappi, «come si salta di pietra in pietra per attraversare un fiume» come ebbe a scrivere André Bazin a proposito di Paisà di Roberto Rossellini), che non si limitano a lamentare le ingiustizie subite, ma che cercano una via di fuga – certo, correndo il rischio di fallire, ma almeno scuotendoci da questa sorta di anestesia generalizzata che è come un’etichetta che ci hanno appiccicato addosso per troppo tempo.

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  11. Alfredo Ronci

    Angelo Calvisi, Un mucchio di giorni così
    di Alfredo Ronci

    Facciamo due esempi.
    Il primo: Claudio s’era diplomato brillantemente sfruttando anche la sua conoscenza di Proust e le sue ossessioni. Quando presentò una tesina al membro interno sull’importanza delle capacità olfattive nella letteratura, dei vini autoctoni e in più disquisendo di madeleines o su quant’è bbuono lu babbà, la professoressa aveva sorriso e aveva sbattuto le ciglia lucidissime perché trattate col mascara all’olio di ricino. Claudio aveva alzato una mano, aveva pronunciato, sibilando, prosit, perché sapeva che era parola latina il cui infinito era prodesse , cioè essere in vantaggio, e dall’alto della sua sicurezza intuì che la donna tettuta davanti era ben disposta. Vai a sapere per cosa: ma non escludendo nulla. Nemmeno un rendez-vous pregustando un sushi in ambiente esclusivamente nippo-pop.
    Il secondo: Claudio s’era diplomato a fatica e aveva dovuto anche rinunciare ad un paio di weekend al mare, per studiare e completare il programma. La donnona davanti a lui, coi ciglioni e le labbrone da nera, masticando un chewingum, tentava di suggerirgli la risposta ad una domanda facile sul pessimismo leopardiano. Piegò la testa su se stesso, solo dopo aver gettato uno sguardo tosto alle bocce della prof, e sussurrando disse: non mi faccia del male, ma studiare Leopardi mi deprime, non è che ha una domanda di riserva e un poeta meno afflitto?
    I due esempi (farina del mio sacco, non citazioni) potrebbero costituire un confronto: in realtà non c’è. E vediamo il perché: il primo si porta dietro la ferraglia delle esperienze scolastiche e la convinzione che da quella si manifesti il talento dello scrittore. Il secondo crede la stessa cosa, ma non ammorba il lettore con la presunzione dell’alfabetizzazione fica. Ma ambedue sono modelli standard ipercontestualizzabili.
    La nostra letteratura indigena questo fa: dal cappello della scolarizzazione estrae il coniglio del proprio presunto talento, in questo caso narrativo, ignorando che è proprio quest’ultimo ad indicare la strada, qualunque essa sia, e non viceversa. Nonostante l’errore dei più, in alcuni casi si crea consenso (leggi: successo), ma è tristemente conforme.
    Mi sono apprestato a leggere Calvisi temendo di trovarmi di fronte all’ennesimo ingegnere della letteratura, che appena laureato mette in pratica i principi della sua educazione. Calvisi è educato, ma non spocchioso e per fortuna rinuncia ai proclami e agli stucchevoli sollazzi di una presunta superiorità intellettiva. Il suo stile è piano e non banale, e sia se parli di un padre ‘perso’ e di una sorella ‘ritrovata’ (‘Credevo che fossi diverso’), sia se immagini un ragazzo che vuole uccidere l’amante della sua ragazza (‘1995 – crisi glicemica’), sia se accenni appena al ferale G8 di Genova (‘2001 – non voglio più servir’), sia che tratti di malattia (‘La fimmina d’arremi’, racconto veramente ben riuscito e commovente) , lo fa con la consapevolezza di voler essere compagno della propria creatura letteraria, non traditore. La letteratura di oggi tradisce le intenzioni ed è falsa. Quella di Calvisi non sarà esplosiva o geniale, ma almeno è onesta.

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