Descrizione
Che differenza c’è tra ascoltare 45 ballate country, e leggere un libro che ne racconta in prosa la trama? Se l’autore è Willy Vlautin, verrebbe da dire, forse solo la modalità di ascolto. Eppure il risultato materializzato in questo Verso nord non è un concept album né tantomeno una croonerata baggiana sulle note lancinanti di una pedal steel, ma piuttosto un (grande) romanzo nella più autentica e grande tradizione americana.
Richiamandosi implicitamente a William Faulkner, l’autore proietta in chi lo legge la figura fragile e indistruttibile di Allison Johnson, nella quale è quasi impossibile non rivedere una Lena Grove col walkman e la patente di guida: ventidue anni, cameriera nei locali di una sfolgorante città buona-per-i-ricchi, Las Vegas, Allison Johnson è l’anima persa con gli occhi blu protagonista del secondo romanzo di Willy Vlautin.
Della vita sa molto, Allison, e quello che sa lo ha scoperto da sola, e in fretta: figlia alcolizzata di una madre alcolizzata, con una sorella sedicenne che ha tutta l’aria di voler continuare la dinastia, con un padre assente e un fidanzato cocainomane e violento, quando la sua situazione diventa troppo pesante e sbagliata, si mette in viaggio verso Reno, squattrinata e persa, lasciandosi tutto quello che può alle spalle (e quello che non può in pancia).
Come unici compagni di questa “nuova vita” l’ombra del suo ex, i fantasmi del suo passato, continuamente “proiettato su uno schermo di fronte ai suoi occhi”, e Paul Newman. Ma quando la vediamo a lavare le stoviglie, con un coltello in mano, e poi riversa sul pavimento mentre tenta invano di tagliarcisi le vene, viene da domandare se non abbia inteso male il senso dell’espressione “una nuova vita”, anche se poi quella specie di istinto che le fa rimettere insieme ogni volta i pezzi della sua esistenza è troppo visibilmente prepotente, come una inerzia, la stessa che fa buttare fuori i boccioli alle rose anche se poi non sai mica se ne avevano tanta voglia.
Sopra i cocci del passato Allison comincia a ricostruirsi e soprattutto a ricostruire un presente nuovo e meno in frammenti, fatto di amicizie nuove e ricordi antichi, di paure e speranze, abbracci (pochi), schiaffi (a valangate) e canzoni (country, ovviamente) come in ogni vita che si possa definire tale.
È un mondo che perde ma non è sconfitto, quello che mette in scena Willy Vlautin, popolato da personaggi che lasciano il segno, senza volerlo, forse solo e semplicemente “perché alle volte le persone sanno essere sorprendenti”.
E alla fine ci lascia Allison, nel tratto del percorso che l’autore ha voluto svelarci, di fronte a uno spettacolo emblematico, la demolizione controllata di alcuni vecchi edifici dei casinò, che sembra voler ricordare che quaggiù tutto cambia (a volte in meglio), e in compagnia di colui che più di ogni altro, in quel momento e “in mezzo al niente”, potrebbe rendere finalmente un po’ più bello il cammino.
Willy Vlautin
Nato a Reno nel 1967, Willy Vlautin è stato il leader, il cantante e l’autore dei testi dei Richmond Fontaine di Portland, una delle più importanti alternative country band americane, a cui si devono otto dischi nella seconda metà degli anni ‘90.
Il suo talento per la scrittura lo ha in seguito spinto a cimentarsi con la narrativa, genere in cui ha fatto il suo esordio nel 2006 con il romanzo The Motel life (trad. it. Motel life, Fazi 2008), libro ben accolto dalla critica al punto da essere incluso tra i migliori 25 dell’anno dalla prestigiosa «New York Times Book Review». Ma, come sempre avviene, la “consacrazione” arriva al secondo colpo: Northline (2008), definito dallo scrittore George Pelecanos “il migliore degli ultimi dieci anni”. In gran parte ispirato alle storie messe in musica dai Richmond Fontaine, è ora proposto da Quarup al pubblico italiano.
Il gatto Zorba –
Verso Nord – Willy Vlautin
di Il gatto Zorba, La Stamberga dei Lettori, 16 febbraio 2017
La vita di Allison non è assolutamente facile: suo padre se n’è andato di casa da molti anni, sua madre è alcolista e anche lei e sua sorella di soli sedici anni sono sulla buona strada, ma soprattutto Allison è una donna che ha difficoltà nel portare avanti da sola la propria esistenza, nel fare delle scelte consapevoli: ha interrotto gli studi senza nemmeno diplomarsi, ripiegando su dei lavori nei locali per andare avanti, sta insieme a Jimmy, un ragazzo tossico, violento e razzista che abusa di lei dal profilo psicologico e da cui si sente dipendente.
Allison a tutto questo, almeno apparentemente, non reagisce, risultando spenta e incapace di scegliere, ancor più di ribellarsi a un destino che vede già segnato, nonostante i suoi soli 22 anni.
Ha problemi di alcolismo che non le facilitano la vita, la sua Las Vegas, nonostante le luci della ribalta per il divertimento e le occasioni mondane, le appare piuttosto una prigione, partendo però dal presupposto della sua periferia, dove immigrazione e delinquenza sembrano voler regolare la vita quotidiana di chiunque.
In tutta la sua fragilità Allison appare una ragazza interrotta, strappata dal reale: la sua unica consolazione è Paul Newman, di cui guarda i film, che la spinge a sognare una realtà alternativa per lei, un attore che nella sua immaginazione a volte, nei momenti di maggiore criticità e introspezione, esce fuori dallo schermo per sostenerla in lunghi dialoghi che lei intrattiene con se stessa.
Di primo acchito, quando ci si interfaccia con i primi capitoli della sua storia, emerge con forza la passività della protagonista, tale da far anche adirare il lettore, perché la donna, pur priva di strumenti, tende a perdersi anche nelle scelte più basilari che le consentirebbero la sopravvivenza.
La narrazione è impregnata del suo essere, rendendo tutto fioco e grigio, quasi spento. Lo stesso strappo o la sua stessa volontà scorre piano, anche nei momenti di maggior concitazione, anche quando scavando scopriamo il suo passato di violenza, sia fisica che verbale e le sue deprivazioni personali.
L’ambientazione stessa risente di questo sentimento decadente, perché filtrato dai suoi occhi, dai suoi gesti. Ciò ci fa capire come, a livello di scrittura, ci sia stata una forte immedesimazione in Allison, una trasformazione che accompagna un po’ tutta l’opera, dove lei galleggia, sospesa tra ciò che sarebbe bene fare e quello che invece è da evitare.
Allison ha il coraggio di andarsene, e riprova a ricostruirsi un’esistenza a Reno, per una pura serie concatenata di eventi fortuiti, ma non sembra che le cose vadano meglio, fintanto che lei continua a ripetere gli stessi identici errori, senza autodeterminarsi mai dal profilo sostanziale.
Nel suo immaginario ritroviamo poi il senso ipotetico del romanzo, che riguarda lei come anche il suo Jimmy (da cui scappa e spera sempre di non essere ritrovata): l’aspirazione a cambiare il proprio futuro, identificato nella metafora del trasferirsi al Nord: dove la vita è più facile, dove si può ricominciare davvero, dove i messicani e gli immigrati non arrivano (secondo quanto ritenuto da Jimmy in uno dei flash back), dove puoi essere quello che sei o chi vuoi.
Una sorta di nuovo sogno americano, modernizzato rispetto alla matrice atavica, ma col substrato di una vita ai margini sociali, dove le reali possibilità scarseggiano, e in cui si diventa semplicemente delle profezie che si auto-concretizzano da sole.
Solo verso il finale la protagonista ci offre dei reali spiragli di cambiamento, decidendo di appoggiarsi a chi non la intimorisce per sentirsi sicura e cercando di svincolarsi dalla dipendenza dell’alcool, scegliendo quindi di accontentarsi nel vivere senza troppe complicazioni, lavorando e costruendo un poco che possa essere comunque suo e di chi imparerà ad amare.
Il secondo romanzo di Vlautin risulta un’opera a mio avviso controversa: da un lato ci narra il dramma e il desiderio di riscatto, affidandolo all’immagine sin troppo stigmatizzata della fragilità che diventa la catena stessa di tutta la storia.
I riferimenti contemporanei sono scarni, atti più che altro a confermare stati d’animo e disagio più che a raccontarci una società intera. La stesura e lo stile scorrono comunque in maniera lineare, a parte la presenza di qualche refuso di battitura lo stile appare concreto e corretto.
Verso Nord è un romanzo che potrebbe aprire molti spiragli di ragionamento, se si avesse la forza di liberarsi del proprio io e si accettasse la voce della protagonista in ogni sua fase di vita, in discesa così come in salita.
È di sicuro un libro dedicato al percorso di una donna in difficoltà: fragile e succube, che ha bisogno di aiuto ma soltanto per potersi sentire autonoma nel suo essere Allison Johnson come persona senziente, che detiene in mano le redini della sua esistenza.
Un’esperienza di lettura che non tutti, se non sono aperti o pronti, possono comprendere sino in fondo.
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Emanuele Pon –
Willy Vlautin: un romanziere country-blues
di Emanuele Pon, Midnight Magazine, 12 novembre 2018
Dicono che, in certe persone, il talento possa assumere più volti; il talento, come l’ispirazione, come l’estro immaginativo. È sicuramente il caso dello statunitense Willy Vlautin, nato a Reno, nel profondo Nevada, nel 1967.
L’artista americano si esprime da anni, infatti, e con ottimi risultati, in ambito musicale ed in quello letterario: per quanto riguarda la musica, Vlautin è il frontman e leader della band alternative country Richmond Fontaine, che ha all’attivo ben undici album in studio (dei quali l’ultimo, intitolato You Can’t Go Back If There’s Nothing To Go Back To, è uscito nella prima parte del 2016); dal punto di vista letterario, invece, ha pubblicato quattro romanzi, dei quali solo tre sono stati tradotti per l’Italia, mentre l’ultimo è in corso di lavorazione.
Ciò che preme sottolineare da subito è l’estrema coerenza interna che caratterizza tutta la produzione di Vlautin: se i Richmond Fontaine ricevono di frequente ottime recensioni, lo si deve principalmente ai testi del leader, vere e proprie american ballads che danno vita alla geografia, alla storia ed all’umanità della West Coast più sincera (d’altronde, dal Nevada alla California il passo è breve, e passa anche per l’immortale Route 66, nel deserto). Ma evidentemente questo a Vlautin non bastava: come ogni grande narratore, è nella dimensione del romanzo che ha trovato la sua completezza creativa, avendo la possibilità di dare più spazio a quei stessi personaggi che animano alcune sue canzoni.
Uno scambio intra-artistico, una sorta di osmosi interna che, coinvolgendo le figure centrali di tutte le sue storie, non può che interessare primariamente le tematiche di un universo narrativo che, in fondo, resta sempre lo stesso.
Pubblicato negli Stati Uniti nel 2006, nel 2008 esce in Italia, per Fazi Editore, Motel Life, primo romanzo di Vlautin (dopo l’apparizione di alcuni racconti in rivista): un’opera prima che contiene già tutto l’estro, tutta la tipicità, ma anche tutti i modelli tenuti presente dall’autore.
E, anche in questo caso, coerenza è la parola d’ordine: i punti di riferimento di Vlautin sono, naturalmente, musicali quanto letterari, ma sono accomunati dalla stessa tendenza di fondo. Che cosa hanno in comune i romanzi di John Steinbeck e i racconti di Raymond Carver con le liriche composte da Tom Waits, Johnny Cash e Bob Dylan? Il dato fondamentale è quello del tono e dell’intento realistici. Fotografare la vita, in tutta la sua disperazione, con tutta la rabbia e la fatica sorda di chi lotta per trovare il proprio posto; e il realismo si acuisce se al centro dell’azione vengono posti personaggi borderline, ai margini della società: vagabondi, diseredati, homeless, che si ritrovano in questa condizione senza alcun preavviso, e tentano goffamente di reagire. Possono attaccarsi alla bottiglia e fare notte tarda in bar malfamati e maleodoranti (come succede in tanti blues di Tom Waits), possono tentare di ribellarsi anche con la forza dell’intelletto (come accade nei canti “di protesta” di Dylan), possono viaggiare senza una meta precisa, per ri-conoscersi, ri-trovarsi.
È proprio questo che succede a Frank e Jerry Lee, i due fratelli protagonisti di Motel Life, che ricordano così da vicino le due figure centrali di Uomini e topi di Steinbeck, e che colgono l’occasione data da un incidente causato da Jerry, in cui un ragazzo perde la vita, per mettere in discussione ogni cosa, e per partire per un viaggio che trae il suo senso proprio dal fatto che appare insensato, immotivato, senza meta né pianificazione. A dominare la scena è l’aridità interiore dei due fratelli, la cui rappresentazione visiva è data proprio dal motel del titolo, dalla “vita da motel”: simbolo di deriva esistenziale, che necessita di un qualche tipo di (romanzo di) ri-formazione.
In bilico tra le figure femminili create da Tom Waits (su tutte, quella Hooker spiantata che scrive una Christmas Card in Minneapolis) e i personaggi desertici – ma così pieni di deserto – dei racconti di Raymond Carver (e specialmente del Carver di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore), si situa la giovane Allison Johnson, protagonista di Verso Nord, secondo romanzo di Vlautin, uscito negli States nel 2008 (con il titolo Northline) ma in Italia solo nel 2013, presso la casa editrice Quarup di Pescara.
Allison ha ventidue anni, ed è l’ennesima anima smarrita portata in scena da Vlautin: figlia alcolizzata di madre alcolizzata, sorella maggiore di una sorella che si prepara a divenire alcolizzata, non ha niente da perdere (ad eccezione di un fidanzato violento, se vogliamo essere morbosi) e perciò si mette in viaggio “verso Nord”, appunto. La differenza con i fratelli di Motel Life, tuttavia, c’è, e sta nel fatto che questa volta Allison ha un piano, una meta: sogna la Grande Città, come i personaggi di Furore di Steinbeck o dei romanzi di Faulkner – anche se è del tutto priva della loro forza propulsiva e del loro ottimismo incrollabile, ed è qui che entra in gioco la mediazione di Carver. La Grande Città verso cui si dirige è, guarda caso, Reno, Nevada. Ma, ancora una volta, è il viaggio che conta.
Il debito di Vlautin nei confronti delle sue radici musicali, profondamente intrise di Country e Blues, appare manifesto nel titolo del suo terzo (e finora ultimo, per l’Italia) romanzo, pubblicato da Mondadori nel 2014 (ma uscito negli USA nel 2010): La Ballata di Charley Thompson.
Se finora Vlautin si era “mascherato” dietro adolescenti troppo cresciuti (Frank e Jerry Lee) o che comunque sono già vicini all’età adulta (Allison Johnson), è proprio l’adolescenza che viene messa in scena attraverso la figura di Charley, quindicenne che vive una vera e propria storia di formazione.
Anche in questo caso, una situazione tragica di partenza, con una madre che non c’è ed un padre che tende a mettersi spesso nei guai, per la sua indole aggressiva e la sua passione per la bottiglia; ed anche in questo caso, sarà la situazione tragica a spingere Charley – che da poco si è trasferito con il padre a Portland e lavora facendo le pulizie all’ippodromo locale – a partire, ma questa volta in compagnia dell’unico amico che gli è rimasto: un cavallo di nome Lean on Pete. Il ragazzo dovrà fare i conti con Del, proprietario dell’animale, che vuole usare Pete esclusivamente per guadagnare alle corse: liberando Pete, Charley tenterà di liberare se stesso, come un incrocio tra un aspirante cowboy ed un moderno Huckleberry Finn.
La penna di Vlautin ci regala storie e personaggi che non sarebbero possibili senza la sua storia musicale; con i suoi romanzi, assume così le vesti di un unificatore di tendenze, che recupera il vecchio per creare il nuovo: capace, grazie all’esperienza dei Richmond Fontaine, di legarsi alla storia del cantautorato Made in USA (da Cash a Springsteen, senza interruzioni o incoerenze), riesce a concretizzarla e a darle spazio anche nell’ambito della scrittura narrativa, per mezzo di uno stile che lo inserisce nel solco della più grande tradizione del romanzo americano.
Ed è del grande romanzo americano, quello realista, che Willy Vlautin si pone come nuova, grande voce.
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Neil Campbell –
Opera in fuga. La regionalità critica e affettiva in “Verso nord” di Willy Vlautin
di Neil Campbell, Iperstoria, 2016
[da: http://www.iperstoria.it – N. VII – Estate 2016 – Sezione monografica:
“Old and New West”. A cura di Stefano Rosso]
… La descrizione del seminterrato di Jimmy Bodie incornicia gli avvenimenti del romanzo, con “una bandiera americana appesa alla porta, e una lampada costruita col paraurti di una Ford coupé del ’46”, e con libri “sulle armi e l’autodifesa, sui tatuaggi, sull’immigrazione, sulla storia degli Stati Uniti” (p. 16). È qui che, dopo avere abusato di Allison e averla violentata nel casinò del Circus Circus, la lascia nuda e ammanettata al letto per dieci ore, cercando di ribadire il suo potere patriarcale; potere espresso sfregiando il corpo di lei con tatuaggi e lividi, per definire la firma machista di Bodie e l’attaccamento perverso ed egoico a un tipo di “westness” da fuorilegge, identificata con una versione decisamente ristretta e inflessibile di mascolinità e regione.
Il tipo di identità culturale di Bodie si fonda su una visione della tradizione che affonda le sue radici nella versione di westness definita egregiamente dal saggiche pro di Owen Wister The Evolution of the Cow-puncher (L’evoluzione del cow-boy, 1895) che immagina l’uomo della frontiera americana (o “cow-puncher”) come un individuo selezionato naturalmente con una precisa genealogia europea anglosassone. Analogamente al ruolo della frontiera nella formazione dell’identità americana secondo la prospettiva di Frederick Jackson Turner, Wister vedeva l’espansione verso ovest – con la sua ricerca rigorosa e maschile, e con la probabilità di trovarsi in situazioni estreme di resistenza, di inventiva e interazione violenta – come un laboratorio dell’anima per riscoprire le energie rimosse che considerava essenziali per una “linea di sangue” anglosassone. Il saggio sul “vaccaro“ (il cow-puncher) traccia la mappa di una identità nazionale americana radicata nello spirito anglosassone e ri-radicata nel “paese del bestiame” attraverso il “cowpuncher” maschio che arrivava insieme a una “tribù” “variegata”, un “mucchio di carte mescolate da… vari mazzi spaiati”, un “plotone di arlecchini”, e che si trasforma grazie alla riscoperta del suo “nocciolo originale” o dell’anglosassonismo essenziale alimentato dalle particolari condizioni del West.
La forma estrema di westness di Bodie, fatta dello stessa stoffa di quella di Wister, si basa su nozioni essenzialiste di mascolinità e regione. Il West è un mondo maschile dove ci si definisce attraverso l’azione e le strutture gerarchiche di potere sulle donne, sui non-bianchi e sulle differenze culturali. È per questo che Jimmy si scaglia violentemente contro i non-bianchi americani, aderisce alla Chiesa Mondiale (neonazista) del Creatore e considera Las Vegas come la quintessenza del declino razziale dell’America: “Era un casino già all’inizio, ora aggiungici anche ‘sti stronzi. I messicani sono come la nebbia, coprono tutto e si infilano dappertutto… Tra un po’ avranno finito di sfasciare tutto” (Vlautin, p. 35). Più di cent’anni prima Wister aveva scritto analogamente delle “orde spregevoli e bastarde … che producono corruzione con il loro verme alieno, che trasformano le nostre città in delle Babele e i nostri abitanti in una farsa ibrida”.
Tuttavia il sogno degenerativo di Bodie è una versione perversa del West mitico: sfuggire alla minaccia del confine di sud-ovest e alla sua “nebbia” di immigrati dirigendosi verso il mitico “Nord”. Diventa un tema ricorrente, per Jimmy, ed è centrale nella geografia politica distorta dell’America e del West; una geografia in cui i messicani diventano l’oggetto di un razzismo estremo e al tempo stesso Toro Seduto è considerato con grande ammirazione poiché “non voleva integrarsi. Non voleva che il suo popolo frequentasse le nostre chiese per essere trattato come una merda, o le nostre scuole per essere preso in giro. Avremmo dovuto tagliar via un paio di stati e lasciarli in pace” (p. 42). Nella mente di Bodie questo “Nord” funziona come un West al contempo rinnovato e retrivo: una frontiera essenziale come quella di Wister o di Turner, dove l’uomo bianco possa essere libero e privo di vincoli. Nella sua lettera a Allison, più o meno a metà romanzo, quando lei è riuscita a sfuggire al suo controllo, Jimmy ritorna su questa cartografia spettrale: “Ho veramente deciso di andare a vivere al Nord. Del resto l’ho sempre voluto. Disegna una linea e vai. Una linea verso nord. Più a nord vai e meglio è. Lontano da tutti. Lontano dai rincoglioniti, dai fuori di testa, dai messicani e dai negri. (…) Direi che più vai a nord e meglio è. Un luogo più sano e normale. Più semplice. Potrei trovarmi un posto nei boschi. Magari in Alaska” (p. 99).
Per Jimmy la “linea verso nord” è una visione etnica pura di un Nuovo mondo o di un West riconfigurato senza i suoi immigrati ma con tutte le immagini associate alla Frontiera. È una versione di ciò che Jonathan Raban chiama, parlando dei gruppi militaristi del Montana, “l’eredità perversa dell’esperienza dell’homestead”. Questo è lo spazio mitico della frontiera dell’immaginario di Bodie, “più semplice” perché rifiuta, come ogni mito riletto da Roland Barthes, di affrontare le complessità della storia con le sue realtà confuse e disturbanti: il mito è “un gioco di prestigio… vuotato di storia e… riempito di natura”. Il Nord di Bodie è “pieno di natura”, è come il Montana di Raban o la fantasia dell’Alaska; uno spazio illusorio del mito che “abolisce la complessità degli atti umani, dà loro la semplicità delle essenze… organizza un mondo senza contraddizioni, perché senza profondità… una chiarezza felice”. Per Jimmy Bodie la regione è, nelle parole di Alfred North Whitehead, “collocazione semplice… senza che sia necessario, per spiegarla, alcun riferimento ad altre regioni costituite da analoghe relazioni di posizione con le stesse entità”. La linea verso nord di Bodie è un’astrazione, una “collocazione semplice”, astratta dall’esperienza e dalle effettive realtà vissute o dalle relazioni affettive dell’essere nel mondo. Seguendo questa linearità prende vita al contrario un mito che calcifica, si fissa e si stacca dalla “particolarità di un luogo determinato” e acquisisce caratteristiche generalizzate ma prive della dimensione umana delle esperienze precise e tattili, e dell’interazione affettiva, il “colore particolare, il tessuto, la luminosità… di quel luogo… i qualia sensoriali”. Vlautin spiega così il sogno di fuga di Bodie:
“Quando ero bambino un sacco di gente che conoscevo parlava sempre del Montana e dell’Alaska e del Nevada settentrionale o del Wyoming come di un paradiso. Luoghi in cui non c’era traffico o gente di colore o gente che la pensava diversamente da te. Sono cresciuto sentendo parlare di questi luoghi come se fossero delle terre promesse, un EL DORADO. Montagne, fiumi, caccia, pesca, libertà. La vita di un tempo. Nessuno di quelli che conoscevo ci è mai andato. Era soltanto un sogno, la loro fuga. Il problema è che guardare un film o leggere un romanzo sul West è molto romantico e piacevole ma vivere in un ranch o in una piccola città del West significa fare un lavoro duro che spesso è un patchwork di lavoretti che ti permettono a malapena di sopravvivere… Bodie vive nel sogno del West. Quando la sua vita comincia a andare in pezzi sogna di dirigersi a nord, di tracciare una linea verso nord, una northline, e di scegliersi un posto dove vivere, dove cominciare una nuova vita dove lui è diverso, in cui il luogo è diverso. Tutto quello che deve fare è lavorare sodo ed essere l’uomo che vuole essere. Questo è il suo sogno.”
(Intervista via email di Neil Campbell con Willy Vlautin, 2015)
In opposizione al regionalismo negativo e distorto di Bodie, un regionalismo statico, rivolto al passato, chiuso e astratto, il romanzo introduce diverse “relazioni di posizione”, “altre regioni” che problematizzano la natura “definita” e “più semplice” della visione di Bodie, la sua northline eterna. Pertanto il regionalismo come concetto può essere destabilizzato dall’affetto critico che reagisce al West in vari modi, e grazie a quelle opere che ho chiamato minori o fuggitive…
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Gabriele Ottaviani –
“Verso nord”
di Gabriele Ottaviani, Convenzionali, 16 giugno 2015
Era ubriaca quando andò in banca a chiudere il conto, e ancora ubriaca quando montò sull’autobus circolare diretto verso casa di sua mamma.
Allison Johnson è fragile. Ma non la spezza nemmeno un uragano. Dell’esistenza sa tutto, forse anche troppo. Benché sia giovanissima. Conosce soprattutto gli aspetti più cupi, fragili, dolorosi. Eppure, nonostante tutto questo, continua, indomita, nella sua battaglia che ha come unico obiettivo la quiete dal suo male di vivere. È un grande, breve, agilissimo e travolgente romanzo americano, originale pur nel solco di una tradizione palese sin dalle prime battute, che sono un grappolo di riferimenti: Quarup pubblica, tradotto da Alessandro Agus, Verso nord di Willy Vlautin, che, quasi come se si trattasse, cambiando quel che dev’essere cambiato, di un concept album, si ispira per questo suo potentissimo e variopinto affresco alle storie messe in musica dai Richmond Fontaine di Portland, alternative country band statunitense di cui lui stesso è stato l’anima. Da leggere.
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italianintransito.it –
La sala di lettura 13
di italianintransito.it
Devo al mio libraio di fiducia la conoscenza di questo scrittore, è stato lui infatti la prima volta a propormelo con un altro libro dal titolo Motel Life. Mi è piaciuto e ho continuato a seguirlo.
La prima volta che leggo un nuovo autore non voglio essere influenzata dalle sue note biografiche né da nessuna prefazione. Così è stato solo in un secondo momento che ho scoperto chi è Willy Vlautin. Scrittore americano nato a Reno nello Stato del Nevada, Vlautin è anche un cantante di successo e autore delle sue canzoni, fa parte di una delle più importanti country band alternative americane: i Richmond Fontaine, di Portland.
E Verso Nord parla proprio di quella parte di America. Il romanzo infatti è ambientato a Las Vegas e a Reno. L’atmosfera e le descrizioni non sono quelle viste dalla parte dei ricchi turisti dediti alla vita notturna e ai piaceri; tutt’altro: sono la faccia povera e desolata di chi in quei luoghi ci vive e ci lavora. La protagonista, Allison Johnson, infatti, è una giovane cameriera e mette bene in evidenza la tristezza e la desolazione dei luoghi. La sua storia ti tiene con il fiato sospeso. Fin da subito vivi la tensione per il destino di questa giovane alle prese con un ambiente circostante infelice, in cui nessuno sembra poterla aiutare: né la madre alcolizzata, né la sorella né tanto meno il fidanzato cocainomane e violento.
L’unica ancora di salvezza vive nella sua testa e sono le bellissime apparizioni in sogno di Paul Newman, visto attraverso tutti i personaggi dei film. È come se lui fosse il suo angelo custode: appare ogni volta nei momenti più drammatici e trova le parole giuste per sostenerla.
Mentre leggi il libro ti trovi sempre a fare il tifo per lei. Allison è una delle tante persone che vivono in questo stato d’animo di afflizione, dentro un tessuto umano desolato. Las Vegas con i suoi casinò, pub, autogrill e centri commerciali presenta un’umanità sola come il deserto che la circonda.
Eppure Allison ha qualcosa dentro che la porta a lottare, ad accettare le sue debolezze e convivere con le paure del passato. Vuole tentare di ricostruirsi un presente e, con il Paul Newman immaginario, ma soprattuto con qualche nuovo amico fragile come lei, riuscirà a trovare un equilibrio in questo mondo malato e squilibrato.
Questo libro non parla solo di una parte di America, ma racconta storie di persone che vivono ai margini, nelle periferie, dimenticate, cresciute e già tradite fin da bambini; racconta storie di povertà culturale. Le uniche consolazioni sono l’alcol, la droga ma anche un balordo razzismo. Sì, perché il razzismo è visto come l’unico veicolo per indirizzare la rabbia e il disagio verso qualcuno. E l’odio dello stolto fidanzato Johnny per tutti i messicani immigrati ti porta a riflettere anche su eventi vicini a noi, perché il suo sentimento inconsapevole e ignorante è così attuale da far paura.
A questo libro daremmo il voto: 9
E voi?
Fateci sapere, diteci la vostra e, se vi va, proponeteci il prossimo libro da leggere tutti assieme.
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Arianna Mastroforti –
Recensione di Verso Nord di Willy Vlautin
di Arianna Mastroforti
Willy Vlautin, frontman del gruppo alternative country Richmond Fontaine, si dedica da diversi anni anche alla narrativa, e Northline è il suo secondo romanzo, e pare proprio mantenere i toni e i temi di una lenta e struggente ballata folk.
La protagonista del romanzo è Allison Johnson: «Aveva poco più di vent’anni, un aspetto ordinario, magra coi capelli neri e gli occhi blu.» Siamo di fronte alla storia di una ragazza allo sbando, che cerca rifugio nell’alcol e in amicizie sbagliate, con in sorte una famiglia che si disinteressa quasi completamente di lei, composta da una madre alcolizzata, una sorella minore che sembra voler ricalcare le sue stesse orme, e un padre fuggito tanto tempo fa. Barcamenandosi tra lavori occasionali e mediocri e molti rimpianti sul suo passato, vittima di una miseria che le piomba addosso e non le lascia scampo, sembra di vederla barcollare con in mano un miscuglio di vodka e 7up, senza una direzione precisa, senza pronunciare troppe parole, ma con uno sguardo mai totalmente rassegnato.
Sempre sull’orlo di un autolesionismo spietato e riservandosi un’autocritica brutale e intransigente, non si sconta neanche il minimo sbaglio: «Hai rovinato tutte le cose belle che ti sono capitate nella vita, hai fatto andare tutto sempre più a rotoli. Andrai all’inferno. Non importa quel che succede, tu comunque starai all’inferno per sempre.»
Dovrà toccare il fondo della disperazione e del disfacimento per trovare le ragioni e la spinta necessarie a spogliarsi di tutto il dolore che le tarpa le ali, e trovare la sua direzione.
È così che la protagonista abbandona una Las Vegas degradante e indifferente e fugge verso Nord, senza una meta precisa, ma mossa esclusivamente dalla sua forza di volontà. Con lei porterà solo quello di buono che le rimane: la musica country, una fortissima curiosità per ciò che non ha potuto ancora sperimentare e lo stravagante personaggio di Paul Newman, che nei momenti di maggiore sconforto le si materializza davanti, condividendo il suo dolore. Raggiungerà la città di Reno – peraltro città natale dell’autore – dove, vinti i mostri del suo passato, cercherà di ricostruirsi una vita.
Tracciare una linea di transizione verso Nord non costituisce per Allison il semplice esito di una necessità di fuga, di una cancellazione indolore del passato; incarna piuttosto un autentico ed essenziale spirito di sopravvivenza, che la protagonista matura solo attraverso un meticoloso lavoro su se stessa di accettazione del suo vissuto, dei propri sbagli e dei suoi stessi limiti: la rinascita non avviene con la rimozione dei propri demoni, ma con la raggiunta capacità di conviverci, di sublimarli in esperienza positiva per il futuro. «Ricordati, bimba, che non c’è nessun posto in cui tu possa fuggire da te stessa. Non c’è alcun posto in cui non ci siano i mentecatti, la morte, la violenza, i cambiamenti, la gente che arriva da fuori. Vai su nel Wyoming o nel Montana, e troverai le stesse cose che trovi a Las Vegas o a New Orleans. Ti troverai sempre a fare i conti con te stessa.»
Allison, insomma, non è niente di più una piccola ed eroica lottatrice che, pur avendo sperimentato solo il peggio che la vita può riservare, sa intimamente quale sia la cosa giusta da fare per riaffermare la sua dignità; e anche quando tutto sembra non avere più ragioni, la protagonista riesce a trovare una risposta agguerrita e sincera, con grazia e tenacia irriducibili.
In linea con la grande tradizione del bildungsroman, la maturazione di Allison e la ricostruzione della sua felicità sono possibili solo attraverso una presa di coscienza del marcio che si porta addosso e una riappacificazione con i fantasmi del suo vissuto.
Nel resoconto di questa delicata vicenda, l’occhio di Vlautin, narratore in terza persona, non è mai moralizzante. Egli si limita a seguire i passi incerti e malconci della protagonista, cui dedica dalle prime righe un forte supporto ideale, senza mai lasciare spazio ad un sovra-giudizio invasivo e riducendo ogni possibile artificiosità a favore di uno stile scarno e diretto. Vlautin sembra volerci dire che la storia parla da sola, senza bisogno di spenderci altre parole che non siano quelle già impiegate nelle pagine che raccontano aneddoti o riportano dialoghi ridotti all’osso. Insomma, non è mai detto su Allison nulla che non sia strettamente necessario, ma che è allo stesso tempo tanto incisivo ed eloquente da creare un irresistibile profilo della protagonista.
Massimo Martinelli –
Recensione: “Verso Nord” di W. Vlautin
di Massimo Martinelli, Fahrenheit 451 Piacenza
Bisogna encomiare la Quarup edizioni, un piccolo editore indipendente di Pescara, che ha pubblicato Verso Nord il secondo lavoro di Willy Vlautin, cantante e autore di testi di una alternative country band americana.
Protagonista di questo cantico agro – dolce di ricostruzioni morali con una lama di luce di ottimismo che consiglio vivamente e ricorda lo Steinbeck del ciclo del Vicolo Cannery, una ragazzotta senza arte né parte del Nord Ovest degli States che dopo essersi buttata via a sufficienza, decide di far perder le proprie tracce e ricominciare da capo. Strada facendo, incontra una teoria di persone che poi così cattive non sono. Stringe nuove amicizie nella nuova località di residenza. Scopre che non è mai troppo tardi per cambiare opinioni su quelle che fino a ieri parevano certezze radicate e, inoltre, che certi tatuaggi, modificati, ne guadagnano. Autocritica con parte del proprio passato, non vorrà mai più rivedere certi fidanzati che credono in falsi dei e bevono birra come se piovesse. Qualcuno pensa sempre a te…
Eppoi, dello stesso Autore, vi segnalo caldamente anche la Ballata di Charley Thompson, buon romanzo di formazione uscito nello scorso mese di maggio per i tipi della collana Strade Blu Mondadori.
Massimo Orsi –
Vlautin Willy – Verso Nord
di Massimo Orsi
Note sull’ autore:
Willy Vlautin, già autore di un precedente libro edito in Italia da Fazi ed intitolato “Motel Life” è il leader del gruppo americano Richmond Fontaine; nelle canzoni e nei libri riesce a descrivere quel senso di isolamento riscontrato nel quotidiano di un’ America periferica, triste e marginale.
Nativo di Reno in Nevada, da giovanissino si interessa alla musica ascoltando gruppi come The Replacements, X e The Blasters unendo la passione alla lettura dei classici di Raymond Carver e Flannery O’Connor, tra gli altri.
Dopo essersi spostato in Oregon, a Portland dove conosce il bassista Dave Harding con cui condivide gli stessi gusti musicali, Vlautin fonda i Richmond Fontaine il cui nome deriva da una avventura vissuta dal bassista durante un viaggio in Messico: durante l’attraversamento del deserto rimase a piedi con la macchina e, soccorso da un vecchio hippie americano, per l’appunto tale Rich Fontaine, lo ospitò nella sua casa in mezzo al deserto e con una buona scorta di droga e birra.
Con l’ inserimento di Stuart Gaston alla batteria e con l’aggiunta di alcuni musicisti occasionali quali Neil Gilpin alla pedal steel, nel 1996 il gruppo pubblica il loro disco d’esordio, intitolato “Safety”, del country-punk aspro che rimane sempre in bilico tra un suono duro e le sonorità lente e desertiche, cupe, cariche di nervosismo e tensione.
Musicalmente si possono accostare a gruppi quali Green on Red, X, Willard Grant Conspiracy ed Uncle Tupelo.
Stesso discorso anche per i successivi album, sino al bisogno di staccare la spina, nato da un periodo difficile a livello personale per Willy Vlautin, il quale decide di nascondersi da tutto e da tutti, finendo nel deserto a Winnemucca, paesino di settemila anime, posizionato in una delle zone più inospitali del Nevada, popolata da motel, stazioni di rifornimento e casinò che offrono riparo a camionisti in transito lungo la highway 80 o perdenti alla deriva che affogano i propri problemi nell’alcol. E’ proprio qui che Vlautin riparte. Frequentando gli stessi bar e le stesse stanze d’albergo di quei poveracci, Willy trae degli spunti per le sue storie ed inizia a scrivere con una nuova vitalità ed in maniera più rilassata rispetto al passato.
La nuova ispirazione genera nel 2002 un nuovo album che si intitola proprio “Winnemucca”, grazie anche alla collaborazione con il produttore JD Foster e l’ingresso nella band del batterista Sean Oldham, segna la maturazione di un sound finalmente unico ed evocativo. La straordinaria bellezza dell’album non passa inosservata e addirittura alcune riviste specializzate considerano l’album come uno dei migliori dischi dell’anno. Rinfrancati dall’ottimo risultato raggiunto, i Richmond Fontaine proseguono e dopo solo un anno danno alle stampe un altro capolavoro: Post To Wire.
L’album prosegue nel raccontare le anime perdute del grande nulla americano assumendo i connotati di un concept-album.
La grande abilità di scrittore di Vlautin trova definitivamente la sua consacrazione nel 2006 quando la casa editrice inglese Faber and Faber pubblica il suo romanzo d’esordio “The Motel life” in cui viene descritta la tragica storia, ambientata nel Nevada, di due fratelli che dopo uno sfortunato incidente mortale causato ai danni di un ragazzino in bicicletta tentano di fuggire spostandosi da un motel all’altro, tra frequenti sbronze, lavori occasionali e amici più spiantati di loro fino al tragico epilogo finale. Il romanzo venne nominato uno dei migliori 25 romanzi dell’anno da parte del Washington Post.
Ora con questo nuovo romanzo speriamo possa bissare il successo del precedente, che nel frattempo è pure diventato un film (nel 2012) con attori del calibro di Stephen Dorff, Kris Kristofferson e Dakota Fanning.
Infine segnalo che a Maggio è prevista l’ uscita di un altro romanzo di Vlautin, per Mondadori – collana “Strade Blu”, dal titolo “Fidati di Pete” che approfondiremo a lettura avvenuta.
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Manuel Graziani –
Willy Vlautin, “Verso nord”
di Manuel Graziani
Come narratore di storie minime in musica Willy Vlautin lo si conosce da circa due decadi, tanto è passato dall’esordio dei Richmond Fontaine. Come narratore tout court lo abbiamo iniziato a conoscere in Italia nel 2008, quando Fazi ha dato alle stampe il suo primo romanzo Motel Life. Ora la collana “Badlands” del coraggioso editore Quarup, dedicata agli scrittori/musicisti, traduce Northline che se non è un capolavoro ci si avvicina molto. Espansione dell’omonima ballata dei Richmond Fontaine contenuta nell’album Winnemucca del 2001, la storia è incentrata sulla debolezza umana e sulle dinamiche che portano le persone deboli ad essere controllate da quelle più forti fino a fare cose che non vorrebbero fare. La ventiduenne Allison ha un passato, un presente e un futuro difficili, segnati da alcol, abbandoni, solitudine e sottomissione. Vive, o meglio si lascia vivere, nella periferia di Las Vegas in un ambiente dominato dal razzismo e dalla violenza dove può capitare che dopo una notte di sballi ci si ritrovi con una svastica tatuata sulla schiena. Il suo fidanzato Jimmy Bodie si fa di speed, lei di vodka e 7UP. A modo loro si amano, hanno bisogno l’uno dell’astro come due animali in gabbia, ma non può continuare. Allison scappa a nord, a Reno, per riparare a un errore e cercare di essere invisibile. Qui continua a fare la cameriera di notte, perché non può dormire. Continua a circondarsi di perdenti. Continua ad attaccarsi all’amico immaginario Paul Newman e alla bottiglia. Continua a essere martoriata dai rimorsi. Continua nell’opera di autodistruzione in cui è campionessa. Eppure, tra la disperazione e l’incertezza continua strenuamente a vivere fino a ritrovare una salvifica serenità fissando le macerie di due palazzi che crollano davanti ai suoi occhi. Per la capacità nel raccontare la sgargiante bellezza della semplicità, Willy Vlautin viene spesso paragonato a Raymond Carver. Seppur facile e un tantino superficiale, l’accostamento ci può stare. Ma tutt’al più possiamo parlare di un novello Carver rapito da Johnny Cash e da American History X.
Luciano Luciani –
“Verso nord” di Willy Vlautin
di Luciano Luciani, Libere Recensioni, 9 gennaio 2014
Dolente, ma non disperato, questo Verso nord, secondo romanzo di Willy Vlautin, leader e cantante dei Richmond Fontaine, uno dei più famosi e riconosciuti gruppi musicali di alternative country.
Il libro, apparso negli Usa nel 2008 e tradotto da Quarup, piccola ma perspicace casa editrice italiana, è, infatti, simile a una ballata triste, carica dei malumori circolanti negli States affacciati sul precario balcone di questo nostro difficile inizio di millennio.
Ne è protagonista Allison, poco più di vent’anni, “un aspetto ordinario, magra con i capelli neri e gli occhi blu”. Una ragazza come tante che, però, vive e soffre una quasi patologica anomia e un’altrettanto grave caduta di autostima: alle sue spalle e nel suo avvenire una famiglia, a dir poco, “volatile”, studi interrotti troppo presto, un presente fatto di lavoretti insulsi, presi e lasciati. Inetta a tutto, Allison si ubriaca spesso, ma non volentieri anzi quasi coattivamente, di vodka e 7up e subisce la relazione con Jimmy, un giovanotto dalle idee poche e confuse, strafatto di amfetamine e imbrancato con gentaglia xenofoba e razzista. Un rapporto ambiguo, intriso di violenza implicita ed esplicita e Allison ne reca i segni sul corpo: non solo lividi, ma anche un paio di tatuaggi “appena sopra il culo, dove portava tatuata una svastica nera delle dimensioni della moneta di un dollaro”. Subito sopra, sulla parte sinistra, portava un tatuaggio con il simbolo della Chiesa Mondiale del Creatore. Un cerchio con iscritta una grande M”, un segno di riconoscimento dei suprematisti bianchi. Una vita a cielo chiuso, a cui Allison non trova di meglio che reagire con pratiche autolesionistiche, oppure affidando i suoi pensieri, veri e profondi, a brevi scritti di sincerità totale con se stessa, subito precipitosamente eliminati. O anche colloquiando con… Paul Newman, non solo il suo attore preferito di cui conosce a memoria tutti i film, ma surrogato fantastico della figura paterna che la consiglia senza giudicarla. Disarmata, fragile, perdente, abituata a subire senza protestare, ad accettare supinamente le scelte degli altri, perennemente impaurita, la ragazza non sembra avere grandi possibilità di risalire la china in cui la sua storia e le sue debolezze la stanno spingendo. Ma Allison è un personaggio resiliente: non si spezza e resiste, si adatta e reagisce, cerca, con sofferenza, nuove strategie di sopravvivenza e nuovi equilibri. Cambia città e fa nuove amicizie; intraprende un nuovo lavoro e chiude con l’alcool e con l’autolesionismo; decide di farsi cancellare quei tatuaggi aberranti e inizia una storia d’amore finalmente nutrita di amicizia e rispetto. Sono in pochi ad assecondare questo percorso di trasformazione: un maturo camionista che ha conosciuto il dolore, una coppia di anziani che intravvede nella ragazza i lineamenti della propria figlia, una donna obesa che l’ aiuta, ed è aiutata, a vincere la solitudine e un giovane invalido reso tale dalla violenza insensata che attraversa i nostri giorni.
Un finale interlocutorio, ma aperto a una speranza non facile né consolatoria, rende il romanzo di Vlautin unico nel panorama letterario Usa d’inizio secolo: un libro, per dirla con le parole dell’autorevole «San Francisco Chronicle», che “ci viene incontro con la forza della realtà e questo, ai nostri tempi, è una sorta di trionfo”.
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Marco Denti –
Willy Vlautin
di Marco Denti, Books Highway, 23 dicembre 2013
L’incipit di Verso nord si snoda come il ritornello di una circus song ed è come se gli acrobati interpretassero il precario equilibrio dell’esistenza di Allison Johnson. L’altra indicazione strategica, prima della partenza, è il suono, l’aspra atmosfera delle ballate country & western, da Hank Williams a Johnny Cash (più di tutti), che sono la colonna sonora di un mondo white trash, povero di idee, di soldi, di tutto, che Allison Johnson interpreta allo stremo delle forze. Non è neanche una Motel Life, per ricordare il romanzo d’esordio di Willy Vlautin, perché la vita si svolge nei parcheggi, nelle tavole calde, in camere ammobiliate con la televisione onnipresente, dove si allinea una sterminata teoria di loser. Allison beve fino a cadere svenuta e quando è sveglia, è preda degli attacchi di panico e sempre sull’orlo del suicidio. Ha una svastica tatuata in fondo alla schiena, senza sapere né perché né cosa significa, anche se nell’iconografia di Verso nord non è altro che l’ennesimo marchio della solitudine e della disperazione. Dopo l’ennesimo crollo, e la scoperta di essere incinta, decide di abbandonare i sobborghi di Las Vegas, compresi il residuo di famiglia che le rimane e Jimmy Bodie, un fidanzato imbottito di speed. Nel viaggio Verso nord, Allison sembra sapere che “non c’è alcun posto in cui non ci siano i mentecatti, la morte, la violenza, i cambiamenti, la gente che arriva da fuori” e non dimentica, nemmeno quando approda a Reno. È lì che, pur lottando contro una moltitudine di rimpianti (primo tra tutti, il figlio dato in adozione), di fantasmi e di incubi, Allison riesce a fermarsi, a darsi un minimo di linea di galleggiamento e a coltivare l’ambizione di un diploma. Non è moltissimo, ma per una che nella vita ha fatto soltanto la cameriera sarebbe già qualcosa in più di un premio di consolazione. D’altra parte il miglior consiglio professionale che ha ricevuto è stato quando qualcuno gli ha detto: “Dovresti fare la cameriera in un locale chic, così faresti un sacco di soldi”. Per Willy Vlautin, Allison Johnson è una rabdomante che fruga nei bassifondi della vita e il pregio maggiore della sua scrittura, come già l’avevamo sentito nel songwriting per i Richmond Fontaine, è quello di seguirla senza intromettersi troppo. Partendo da lei, i quarantacinque frammenti di cui è composto Verso nord ricalcano il disorientamento, il malessere, il dolore di un’umanità ingenua, fragile, spezzata da troppe promesse e affondata in un fiume di alcol. La fuga, nella speranza di cominciare da un’altra parte, è la possibilità sottintesa in ogni frase scritta da Willy Vlautin, come se sulla strada ci fosse una risposta o magari una promised land da raggiungere. Viaggiando Verso nord, si scopre invece che il luogo più ospitale per Allison e per il suo occasionale compagno è il deserto e non c’è alcun suggerimento metaforico nell’immagine composta da Willy Vlautin. Solo l’alone di una luce fredda e crepuscolare e i filamenti della scrittura di un narratore destinato ad andare lontano.
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Monnalisa –
Willy Vlautin, Verso nord
di Monnalisa
Dalla quarta di copertina: “Willy Vlautin scrive storie potenti che raffigurano frammenti della vita nelle piccole città della provincia americana, e fanno pensare e Raymond Carver” (Doug Johnstone, “The Times”). Sì. Willy Vlautin scrive storie. Anche quelle. Ma Vlautin è prima di tutto un cantante ed autore di canzoni, leader di un gruppo musicale alternative country, i Richmond Fontaine di Portland (Oregon). Ha esordito come scrittore nel 2006 col romanzo “The Motel Life” a cui ha fatto seguito, due anni più tardi, “Northline” tradotto e pubblicato da Quarup nel 2013 col titolo di “Verso nord”. E’ per questo che il romanzo che ho letto sembra proprio avere tutta l’aria e la sostanza di una lunga ballata country americana, quel genere di canzoni che hanno fatto la fortuna di numerosi cantanti statunitensi.
Dalle canzoni country alla narrativa. Il salto sembra semplice, ma non lo è affatto. Scrivere canzoni e scrivere un libro non è la stessa cosa. E, per quanto possa valere la mia opinione, Vlautin dovrà lavorare ancora parecchio prima di entrare nell’Olimpo dei grandi scrittori. La storia di “Verso nord” somiglia a tante storie di provincia americana che ho già visto o sentito raccontare attraverso film e canzoni. Storie che, a dire il vero, si somigliano un po’ tutte. C’è sempre una persona seriamente impegnata nel proprio disfacimento. C’è sempre un corollario di figure negative e mediocri. Ci sono sempre sofferenze e altre lacerazioni. Però, come in ogni buona ballata a stelle e strisce che si rispetti, l’happy end è alla portata di chiunque. Basta avere buona volontà, fiducia in se stessi e un pizzico di fortuna. E il sogno americano è destinato a compiersi immancabilmente.
Il personaggio seriamente impegnato nel proprio disfacimento, qui, si chiama Allison. Ventidue anni, occhi blu, persino graziosa, Allison è la figlia alcolizzata di una madre alcolizzata. Non vede suo padre da anni, da quando ha mollato sua madre, lei e sua sorella per andarsene con una cameriera. Il ragazzo di Allison si chiama Jimmy e passa il tempo a farsi di speed, a bere e ad inveire contro tutti gli immigrati, neri o messicani che siano. A Las Vegas ce ne sono troppi e stanno devastando il suo quartiere che non è di certo sicuro come un tempo. Allison beve con lui e senza di lui. Si scola litri di 7up e di vodka per poi ritrovarsi immancabilmente svenuta in mezzo al suo vomito da qualche parte.
Allison beve e sviene. Nel frattempo le tatuano svastiche sulla schiena e qualcuno fa anche sesso con lei. Lei non sa reagire e continua a scrivere di essere una persona orribile. Vorrebbe cambiare ma è complicato farlo. Ha abbandonato la scuola ma sa che sarebbe stato meglio diplomarsi. Insomma: storie di inettitudine ed umana inconcludenza. Allison è palesemente una perdente: neppure il suicidio le riesce bene. Soffre, questo è ovvio. Ha crisi di panico e continua a bere nonostante tutto. Fuggita dal suo fidanzato e da Las Vegas, Allison si ritrova a Reno quasi senza sapere come e perché. Gli errori della sua breve vita l’ossessionano e trova un po’ di conforto solo nelle conversazioni immaginarie con Paul Newman. Nonostante tutto, però, per la ragazza le cose sembrano poter migliorare e, senza svelare il finale, diciamo che, a mio parere, molto probabilmente Carver avrebbe scritto tutt’altro epilogo.
La scrittura di Vlautin si mantiene lineare e priva di slanci significativi. Convenzionale, oserei dire. Semplice ed uniforme. Non ho individuato in questo romanzo grandi novità né stilistiche né letterarie. Anzi. Tutto sembra andare esattamente come un lettore si aspetti che vada. Non so se questo sia il meglio che la letteratura americana sia in grado di proporre in questo periodo, se così fosse credo ci sia da discutere a lungo sul concetto di buona letteratura.
Luca Pantarotto –
Sai che c’à di nuovo? L’America in libreria – 22 / 29 novembre (291113)
di Luca Pantarotto
Verso Nord è il secondo romanzo di Willy Vlautin, cantante del gruppo alternative country dei Richmond Fontaine (Portland, Oregon). Forse per prevenire una nostra peraltro inesistente diffidenza verso i cantanti che decidono di buttarsi nella narrativa, la scheda ci rassicura spiegandoci che il libro non è “una croonerata baggiana sulle note lancinanti di una pedal steel“, ma una storia che può entrare a pieno titolo nella Storia del Romanzo Americano: come a dire, ok, è un cantante, ma voi non fateci caso, poi passa. Purtroppo il termine “croonerata”, che nella mia scarsissima esperienza di vita non ho mai sentito, mi ha mandato il cervello in loop impedendomi di capire il resto; da quel che ho pescato in giro, riesco vagamente a immaginarmi la storia di una ragazza-con-problemi in fuga da un mondo-pieno-di-problemi, che si mette in strada per ritrovare se stessa e, incidentalmente, qualcuno con cui condividere il resto della vita. In altre parole, un racconto di formazione on the road: e per me basta così. Nel senso che basta, davvero, nel 2013 siamo ancora qui a parlare di storie on the road? Poi, se vogliamo aggiungere che il complimento più ricco che ho trovato si limita a dire più o meno “Bravo, Vlautin, che non te la tiri troppo”, il quadro è completo.
Marco Denti –
Willy Vlautin, Verso nord
di Marco Denti, Books Highway
Il road movie che si dirige Verso nord parte dalle disadorne stanze di Motel Life (Fazi) e attraversa un deserto di insegne al neon, conversazioni notturne, parcheggi, K-Mart, Flying J e altre amenità americane viste tra i fari di un’automobile e l’alone velenoso della televisione. Due luci che non si spengono mai nelle quarantacinque ballate che compongono Verso nord e il cui tenue bagliore, quell’aura crepuscolare, decadente e sottilmente malinconica che ben interpretano i Richmond Fontaine, è la cifra più evidente dello stile di Willy Vlautin. La sua protagonista, Allison Johnson è la guida che segue nei bassifondi di una civiltà che sta frugando della polvere della Levelland per cui è sempre colpa dei messicani e dei “negri”, una specie di sottoproletariato che vive quello che una volta si chiamava il sogno americano sempre come un’imposizione, figurarsi se riesce a mettere almeno un trattino tra speranza e utopia. La confessione di Allison, in forma di lettera che spedisce a se stessa mentre ascolta un greatest hits di Patti Page, è laconica: “Hai rovinato tutte le cose belle che ti sono capitate nella vita, hai fatto andare tutto sempre più a rotoli. Andrai all’inferno. Non importa quel che succede, tu comunque starai all’inferno per sempre”. Dove abbiamo già sentito queste parole? Hank Williams? Johnny Cash? Sì, sono loro le spiritual guidance di Willy Vlautin, anche se Verso nord è una versione delle Motel Chronicles di Sam Shepard aggiornate con in corpo meno whiskey e più speed.
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