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Una idea di letteratura

Volo in ombra

(14 recensioni dei clienti)

11.00

L’opera di Anna Ruchat sfugge alle catalogazioni della narrativa così come alle sue forme. Composizione contrappuntistica a tre voci e tre sezioni, azzarderebbe chi vuole approssimarsi all’esattezza…

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Categoria: Product ID: 1568

Descrizione

l’opera di Anna Ruchat sfugge alle catalogazioni della narrativa così come alle sue forme. Composizione contrappuntistica a tre voci e tre sezioni, azzarderebbe chi vuole approssimarsi all’esattezza…

Tessutissimo volo tra le dimensioni, l’opera di Anna Ruchat sfugge alle catalogazioni della narrativa così come alle sue forme. Composizione contrappuntistica a tre voci e tre sezioni, azzarderebbe chi vuole approssimarsi all’esattezza: nella prima parte Sofia è la bambina che vive – così diversa – con sua madre, e così prossima a chi non c’è.
Nella sua vita, concretizzata nelle torte di mele della nonna, nel Requiem di Mozart e negli strumenti da disegno della mamma architetto, avvertiamo accanto a lei una presenza vaga, mancante. E insieme ad essa “un principio di dolore” addirittura “insensato”, nelle parole della madre, perché non è possibile sentire la mancanza di una cosa mai posseduta. Una voce arcana si infiltra dalle righe del rapporto militare di un incidente aereo, e si materializza nella seconda parte in parole che ci arrivano dall’ombra di ciò che è stato: è il padre di Sofia, che ci racconta la sua versione dell’incidente. Finché le due voci e le linee narrative si ricongiungono, per sovrapporsi nello stretto finale della presa di coscienza che tutto risolve e conclude: Sofia-Anna, ora adulta, si mette per caso, o solo per destino, sulle tracce di quella voce, del padre perduto prima ancora del possesso e lo incontra nei luoghi del suo ultimo volo, nelle carte di un archivio, nei ricordi degli altri, ripercorrendo all’inverso e come in negativo una identica mappa che scopre chi non ha forma sensibile ma esiste ed è umano, come gli spettri.

Anna Ruchat
Anna Ruchat è nata a Zurigo l’8 dicembre 1959. Ha studiato filosofia e letteratura. Thomas Bernhard, Paul Celan, Nelly Sachs, Victor Klemperer, Mariella Mehr, Werner Herzog sono tra gli autori che in molti anni di attività ha tradotto dal tedesco. Insegna all’Istituto Superiore per Traduttori e Interpreti di Milano. Dal 2002 si occupa della gestione dell’Archivio del poeta Franco Beltrametti. Nel 2004 è uscita la raccolta di racconti In questa vita (Casagrande). Nel 2005 ha pubblicato il volume di poesie Geografia senza fiume (Campanotto) e, in collaborazione con la fotografa Elda Papa, il racconto Il male minore. Nella primavera del 2009 è uscita, in collaborazione con l’artista Giulia Fonti, la raccolta di poesie Angeli di stoffa (Pagine d’Arte).

Informazioni aggiuntive

Autore

Collana

ISBN

978-88-95166-12-4

Pagine

72

Formato

12×19,5

14 recensioni per Volo in ombra

  1. Rossana Maspero

    @ “Furbo chi legge” 6 ottobre 2011
    di Rossana Maspero

    Furbo chi legge magazine di giovedì 6 ottobre alle ore 17.05 prevede in sommario l’aggiornamento della classifica dei libri più venduti nella Svizzera Italiana, considerazioni sulla 6° edizione di «Castelli di carta» , premio letterario di cui ci parla Stefano Vassere, qualche segnalazione e un primo breve stralcio dall’intervista ad Anna Ruchat fatta in occasione della recente uscita del suo secondo libro di narrativa, Volo in Ombra pubblicato da Quarup edizioni.

  2. Antonio Moresco

    Volo in ombra
    di Antonio Moresco, Il Primo Amore

    È uscito Volo in ombra di Anna Ruchat. Lo ha pubblicato Quarup, un piccolo editore di Pescara. Non lo troverete nei posti più in vista delle librerie, ma cercatelo, trovatelo. È un piccolo libro di 68 pagine, ma di quelli che bisogna meritarsi.

    Pubblicato da a.moresco il 30-11-10
    il richiamo della foresta
    Leggi la recensione nella sua pagina web

  3. Giornate Letterarie di Soletta

    Giornate Letterarie di Soletta
    di Giornate Letterarie di Soletta

    Anna Ruchat, nata a Zurigo nel 1959, è traduttrice dal tedesco di autori come Thomas Bernhard, Paul Celan, Nelly Sachs, Mariella Mehr e altri.
    Volo in ombra è la storia in tre parti dell’incidente aereo in cui ha perso la vita suo padre, dei 53 secondi che passano da quando il propulsore dell’aereo militare Hunter che pilotava si blocca a quando l’aereo si schianta a terra. Ma è forse soprattutto la storia del tentativo, da parte dell’autrice — da parte della figlia — di trovare il modo di affrontare la vita al di là di quell’episodio.

  4. Sebastiano Marvin

    Fakt und Fiktion n. 4 – Volo in ombra
    di Sebastiano Marvin

    Ci sono storie che chiedono di essere lette tutte d’un fiato. E ci sono storie che invece il fiato te lo mozzano di continuo. Io Volo in ombra di Anna Ruchat non l’ho ancora letto (lo leggerò, l’ho comprato ieri alla libreria del festival insieme a quello di Michel Layaz, anche se a un prezzo assurdo). Dopo averlo sentito leggere dalla sua autrice sabato, però, ho avuto la netta sensazione che Volo in ombra sia una di quelle storie che chiedono di essere lette tutte d’un fiato solo per potertelo mozzare nei momenti giusti: una lunga serie di tuffi da un trampolino di 10m, in cui non sai mai se sia meglio prendere fiato mentre precipiti nel vuoto o una volta ritrovata la calma sott’acqua.

    La storia in questione è quella di un banale incidente aereo, come ne succedevano abbastanza frequentemente durante le esercitazioni degli aerei militari svizzeri a cavallo fra gli anni 50′ e 60′. Nel libro si parla in particolare del 1961, un anno particolarmente tragico da questo punto di vista: ben sette incidenti, in cui otto piloti rimangono uccisi. Ma ecco che se uno quei piloti è tuo padre, e se tu hai solo 2 anni di età, quell’incidente diventa decisamente meno banale. Anzi, forse ti abiterà per tutta la vita finché non riuscirai a fissarlo nelle pagine di un libro.

    Per Anna Ruchat non è stato facile trovare il modo. Non è stato facile trovare un editore. Non è stato facile trovare una forma definitiva, con dei testi che sono stati modificati fino all’ultimo momento. Eppure il risultato finale sembra essere un piccolo gioiello: 70 pagine di riferimenti storici reali, di foto d’epoca e del giorno d’oggi, di ricordi rielaborati letterariamente e di una proiezione immaginaria nella testa del pilota, o del padre, o di entrambi.

    È difficile aggiungere altro. Alla lettura di Anna Ruchat c’erano più emozioni che parole — so per certo di non essere stato l’unico a non riuscire a trattenere qualche piccola lacrima — e le emozioni si possono mettere solo in un testo letterario, non certo nel finale di un blog post come questo.

    In ogni caso, leggetelo!

  5. Paola Grizi

    Volo in ombra: Il destino di un pilota
    di Paola Grizi

    Il propulsore dell’Hunter si bloccò improvvisamente, quando la distanza dallo schianto era di soli 1500 metri e di 53 secondi. Un tempo minimo che, in questi casi, tende a dilatarsi verso l’infinito. A terra una moglie e una figlia piccola, a cui si sono fatte molte promesse, tra cui quella di non volare più.
    Volo in ombra: Il destino di un pilota

    A quel punto ho detto che mia moglie mi aveva chiesto di smettere di volare, che lo aveva anche scritto in una lettera e avevo appoggiato la mano sul taschino della camicia, quasi a verificare che la lettera ci fosse ancora. Pretende che non voli più, ho detto, e questa volta farò quello che vuole lei. Le ho detto che quello di oggi sarebbe stato il mio ultimo volo.

    Il racconto parte dal quotidiano un po’ solitario di una bambina benestante come tante, Sofia, e della sua mamma architetto, interrotto dalla voce fuori campo di un asettico rapporto militare, frammentario, talvolta martellante, che insiste sui particolari di un incidente aereo in modo ossessivo, e che spinge il lettore a voler comprendere meglio. Si insinua il dubbio che il pilota avrebbe potuto salvarsi, si intuisce che la vita di moglie e figlia avrebbero avuto un diverso corso. L’apparente normalità del quotidiano, infatti, sottende a una devastante mancanza di cui non si parla, e per cui si soffre in silenzio. E’ a questo punto che irrompe la voce del pilota, che racconta la sua versione dell’incidente, quel segnale acustico fortissimo, che lo distrasse dalla necessaria concentrazione che avrebbe potuto salvargli la vita. Di qui parte la ricerca a ritroso della figlia, ormai adulta, che decide di affrontare il dolore fino in fondo, fino a trovarsi faccia a faccia con il dossier del padre e con le foto che rendono vero e tangibile tutto ciò che rimase sospeso per anni e che sconvolse il proprio destino di bambina prima, e di adulta poi.

  6. Pierre Lepori

    Intervista a Anna Ruchat (Feuxcrois´s , n. 8, 2006)
    di Pierre Lepori

    L’opera di Anna Ruchat sfugge alle catalogazioni della narrativa così come alle sue forme. Composizione contrappuntistica a tre voci e tre sezioni, azzarderebbe chi vuole approssimarsi all’esattezza : nella prima parte Sofia è la bambina che vive – così diversa – con sua madre, e così prossima a chi non c’è. Nella sua vita avvertiamo, accanto a lei, una presenza vaga, mancante. Una voce arcana che si infiltra dalle righe del rapporto militare di un incidente aereo, e si materializza nella seconda parte in parole che ci arrivano dall’ombra di ciò che è stato : è il padre di Sofia, che ci racconta la sua versione dell’incidente. Finché le due voci e le linee narrative si ricongiungono, per sovrapporsi nello stretto finale della presa di coscienza che tutto risolve e conclude.
    Pierre Lepori : Una prima domanda è d’obbligo : lei è conosciuta anzitutto come traduttrice ; il suo impegno e la grande qualità del suo lavoro in quest’ambito sono riconosciuti e spesso ricordati. Questo riferimento costante alla traduzione la disturba, ora che è avvenuto il suo esordio come autrice, con i racconti de In questa vita?
    Anna Ruchat : Mi sembra piuttosto naturale. Quando ho cominciato a scrivere, in gioventù, ho sentito chiaramente che mi mancavano gli strumenti, che un apprendistato mi era indispensabile. Avevo molte cose da dire, ma quando scrivevo il risultato era disturbato dalla vicinanza con la « vita vissuta », che appesantiva il testo. La traduzione ha preso il posto di questa difficoltà di scrittura. Mi sono iscritta all’Università di Milano, alla facoltà di medicina, ma dopo un anno ho deciso di trasferirmi in Germania, a Heidelberg. In quel periodo ho tradotto una pièce radiofonica di Albert Andersch e ho percepito chiaramente che – oltre a provare un vero piacere nell’affrontare una lingua che iniziavo a conoscere bene – questo mi consentiva di scrivere cose che erano in parte dentro di me. Questa sensazione è tornata potentemente, in seguito, traducendo l’autobiografia di Thomas Berhard : scoprivo con stupore che, traducendolo, parlavo anche di me stessa. Devo ammettere di aver incontrato i libri giusti al momento giusto, nel mio lavoro di traduttrice. E che ho sempre vissuto la traduzione come una sfida, scegliendo autori al di sopra dei miei mezzi per confrontarmi costantemente con nuove difficoltà : non penso di avere uno speciale talento di traduttrice, vedo costantemente i miei limiti ed è questo a stimolarmi. La mia carriera di traduttrice è dunque stata segnata dalla passione. Il punto culminante è stato certamente la grande traduzione dei Diari di Victor Klemperer : ho capito molto presto che avrei affrontato una scrittura del quotidiano e che sarebbe stato per me un viaggio testuale determinante. Mi ci sono voluti tre anni ed è proprio durante questo lavoro di lungo corso che la scrittura personale è tornata in superficie, fors’anche perché non stavo traducendo un’opera “letteraria”, quanto piuttosto diaristica.

    La traduzione è stata dunque per lei una scuola di scrittura. Ma forse ha anche contribuito a mantenere la sua scrittura personale in una zona d’ombra ? Fabio Pusterla afferma, ad esempio, di non potersi dedicare alla propria scrittura personale, mentre è impegnato nella traduzione di un altro poeta…

    Per anni ho creduto che nella vita avrei fatto solo questo : tradurre. A un certo punto provavo addirittura vergogna, rifiutavo tutto quel che mi era capitato di scrivere fino ad allora. Ma mi mancava una lingua, come ho detto : il fatto di essere cresciuta in Ticino è stato in questo senso determinante. Anche come traduttrice, mi sono talvolta trovata in difficoltà, soprattutto agli inizi, nei confronti dei redattori della casa editrice Adelphi, che avevano una più grande facilità nell’uso della lingua italiana. E’ stato però anche un vantaggio : ero meno sicura di me ma avevo anche meno schemi linguistici predefiniti, il che mi consentiva una più grande libertà nel rendere la lingua tradotta. Specialmente con il tedesco, che ha una struttura sintattica molto lontana dall’italiano e che esige talvolta delle rotture di stile, delle libertà di traduzione. Devo in questo senso molto al fatto di essere svizzera : i miei nonni erano romandi e io stessa sono nata a Zurigo.

    Parliamo allora della lingua letteraria, anche se è difficile stabilire una distinzione netta con la lingua delle traduzioni. Diversi critici hanno notato che la sua scrittura è secca e fluida, che il lessico è preciso e le emozioni sono espresse con grande economia di mezzi. L’ombra linguistica della lingua tedesca, e specialmente dei suoi autori più amati, come Thomas Bernhard… Si riconosce in questa filiazione?

    Senza dubbio. Il vantaggio dell’aver iniziato a scrivere testi personali così tardi, è di aver potuto lasciar depositare dentro di me molte voci letterarie. Non posso dire però di riconoscermi in una scrittura “alla Bernhard” o “alla Klemperer” e non sono sicura che i parallelismi siano così evidenti. Mi sembra piuttosto trattarsi di una tela di fondo, tessuta di varie voci, su cui il tedesco ha lasciato la sua traccia. Questo dipende anche dalla mia predisposizione (direi quasi dalla mia passione) per il montaggio : utilizzo materiali disparati, assemblo brani testuali diversi. Siccome non scrivo con facilità molte pagine di seguito, lavoro a lungo sui dettagli, sulla densità della frase, il che comporta una certa lentezza nella scrittura. Si aggiunga a questo che prediligo il lavoro di memoria a partire dalle immagini. Il mio punto di partenza non è la storia, ma l’immagine. E questo comporta, alla fine del processo creativo, un vero e proprio montaggio. Mi sembra dunque di trovare un collante tra le varie immagini che compongono il mio testo proprio in questo deposito di scritture altrui (e non unicamente attraverso la traduzione) : è una vera e propria tecnica, che mi permette di costruire passo dopo passo i miei testi. Per spiegarvi fino a che punto l’immagine mi guida, potrei citare la mia prima plaquette di poesia – pubblicata qualche anno fa dalla Stamperia Veladini di Lugano. Durante l’inverno avevo fotografato una fila di pioppi lungo le rive del fiume Ticino, a Pavia, e a queste immagini ho semplicemente aggiunto tre poesie, come in un collage.

    Ritroviamo la tecnica del collage testuale nello spettacolo che ha lei composto in memoria della Shoah, utilizzando brani di Klemperer e di altri autori. Questa pratica teatrale, spesso utilizzata, si ispira chiaramente alle correnti post-moderne. Si riconosce in una scrittura post-moderna?

    Ho appena finito di tradurre i testi politici di Thomas Mann, dedicati alla persecuzione ebraica. I ricercatori hanno potuto dimostrare fino che punto Mann, nei suoi saggi, citasse altri autori : secondo i loro calcoli le Considerazioni di un apolitico , i diari degli anni della Grande Guerra, sono composti per l’80{dbde46d594618d833e80d55d58a98c061e383b1e822c22ef6679f34d84b3d72f} di citazioni. Nello stesso periodo, Walter Benjamin formulava l’idea che il migliore libro possibile fosse un libro composto unicamente di citazioni. In fondo, che altro facciamo, scrivendo, se non proprio citare ? Il mio è dunque un lavoro forsennato – un lavorìo più che un lavoro – su materiali preesistenti, che non voglio nascondere. Mi piace piuttosto farne buon uso.

    Eppure, nei suoi testi, non siamo di fronte unicamente a una giustapposizione di immagini e materiali testuali : la narrazione è condotta con maestria, con una vera e propria drammaturgia che lega episodi ed epoche diverse…

    Questo perché il gioco delle citazioni e delle fratture, in fin dei conti, non è altro che un modo per diluire la densità delle immagini sottese alla storia che voglio raccontare. O forse di trovare una giusta distanza, rispetto a emozioni troppo forti che ho provato. Prendiamo come esempio un mio nuovo progetto letterario, che porta il titolo di lavoro Il male minore [ pubblicato nel 2006 dalle Edizioni Franco Beltrametti, N.d.R .] : si tratta di diverse storie di donne alle prese con la separazione. Ho iniziato a lavorarci mentre intraprendevo la traduzione dei Diari di Klemperer : il tema della vittima e del carnefice ha dunque innervato profondamente il mio lavoro. Di fronte a una situazione di rottura personale, non ho potuto esimermi dal domandarmi quale fosse il mio ruolo, di vittima o carnefice appunto. Ho allora deciso di rileggere le lettere dal carcere di Antonio Gramsci, durante il lungo periodo della sua prigionia (1926-37) ; e quelle di Rosa Luxemburg, assassinata nel 1919. Sono rimasta molto colpita dalle lettere strazianti in cui Gramsci rifiutava una domanda di grazia per ragioni politiche, ma anche perché si sentiva legato alla prigione al punto da non poter concepire una vita fuori di essa. Gramsci scriveva alla nuora Tatiana : “ Non voglio niente ; se mi porti delle calze, che siano grigie ” ; ormai non credeva più alla vita. Scrivendo la mia storia – organizzata anch’essa in forma epistolare e dando ai personaggi i nomi di Rosa e Antonio – non ho utilizzato la storia di Gramsci ; ma quella lettura e l’uso delle citazioni mi ha consentito di sentire profondamente l’atmosfera della prigione ed anche il dolore profondo di chi ne è escluso. E’ stato un modo per trovare la giusta distanza.

    Questo dà spesso l’impressione che i personaggi e le storie vengano fatti passare attraverso una specie di prisma: nei suoi racconti, le voci, le vicende, le citazioni e le allusioni s’intrecciano dando al lettore una sensazione strana, come se si trovasse all’incrocio tra vari sentieri narrativi. Questa molteplicità di voci è il risultato anche dei molti autori finora da lei tradotti?

    Non solo degli autori tradotti, ma anche di quelli letti, soprattutto in ambito tedesco. Penso in particolare alle novelle di Melita Breznik, che mi hanno particolarmente influenzato : quest’autrice utilizza nei suoi testi una tecnica molto particolare, cambiando spesso voce o prospettiva nel corso di un unico racconto. Questa possibilità mi è molto piaciuta, perché mi ha liberato dall’obbligo di un unico punto di vista narrativo. Ho ritrovato la stessa attitudine nel romanzo Einer [ Uno di qui ] dell’austriaco Norbert Gstrein, un libro che ho tradotto nel 1994, nel quale era talvolta difficile capire chi stesse parlando, nella sarabanda incessante di cambiamenti del punto di vista.

    Qual è allora il suo rapporto con il realismo, con la possibilità di “dire” il reale, nell’affastellarsi di queste voci multiple e delle citazioni testuali?

    Ho sempre voluto raccontare le cose che avevo vissuto in prima persona ; sono totalmente incapace di scrivere qualcosa che non ho sperimentato personalmente. Questa posizione implica per me la sfida di riuscire a raccontarmi, di accettare la mia storia come “narrabile”. Ed è il vero centro del problema : la nominabilità delle cose della vita. Profondamente iscritta nella mia storia, c’è – fin dall’inizio – la morte di mio padre. Mio padre è morto in un incidente aereo, nove mesi dopo la mia nascita. Era giovane e bello e tutto per lui è finito in pochi istanti : ecco l’indicibile. Tutta la mia infanzia è riempita da questa enorme presenza della morte e del suo tabù. Ci è voluto un lungo lavoro per arrivare a trovare uno spiraglio nel quale scivolare, per guardare in faccia la mia storia. Un lavoro che ha dovuto passare per la Shoah di Klemperer (raccontata con la quotidianità di un diarista), attraverso la disperazione di Berhard. Cercavo la libertà di dare un viso a questa realtà innominabile ; di trovargli un senso, seppure frammentario. Molti anni dopo, la mia primogenita è morta a poche ore dalla nascita. Paradossalmente, questo lutto è stato anche una catarsi, perché si trattava di una morte mia, che avevo il diritto di nominare : l’ho dunque raccontata nel primo racconto di In questa vita , che è stato anche il primo testo che ho scritto, nel momento in cui ho osato di nuovo farlo in prima persona. Queste morti – e le altre nel libro, e le altre che ci accompagnano – sono a tal punto assurde che si corre il rischio di chiedersi, come fa uno dei personaggi, “ che senso aveva, se era solo questo ?”. In fin dei conti, il mio lavoro letterario cerca di ridare senso, seppur frammentariamente, a queste fini tragiche. Di restituire una vita a questi morti che sono talvolta ben più vivi dei vivi. Ecco perché ho deciso di intitolare il mio primo libro In questa vita . Come ne I sommersi e i salvati di Primo Levi, un autore che mi ha profondamente segnato. E’ come se, ancora una volta, il passaggio attraverso la Shoah mi avesse dato il “permesso” di scrivere in modo realista, dal momento in cui scrivere significa infrangere il tabù fondamentale della morte, in senso autobiografico.

    Scrivere è dunque osare raccontare e raccontarsi?

    Chiaramente il lettore è libero di decidere se sta leggendo la mia storia o “una” storia. Nella traduzione e nella scrittura letteraria, penso che la posta in gioco sia proprio questa : ai due estremi dell’adesione totale o della trasfigurazione letteraria, lo scrittore cerca sempre di trasmettere un frammento del reale. Si tratta di un’esigenza etica fondamentale. Ma non bisogna ingannarsi : il realismo non consiste in una copia perfetta del reale (ma esiste, in fondo, il reale, al di fuori di noi ?), quanto piuttosto nell’essere fedeli a un vissuto profondo, a una verità interiore. Quando scrivo, parto dunque da una sorta di iperrealismo della sensazione e dell’immagine : costruisco un tessuto a partire da una verità “prima”, da una “mia” verità : è il mio ancoraggio, la mia adesione al reale, l’onestà del sentire.

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  7. Alfredo Ronci

    Volo in Ombra
    di Alfredo Ronci

    Fin dove il lettore vuole s’immagina una finzione: di una bimba che vive una vita serena con la madre, donna attiva e professionale, ma che nasconde un vuoto, un profondo vuoto, una mancanza terribile. Poi il lettore può svirgolare ed entrare nella biografia. Ma può mantenere l’impressione iniziale. Quasi il gioco.
    Volo in ombra della scrittrice svizzera Anna Ruchat (e sulla quale il Paradiso già pose tempo fa la sua attenzione) è diviso in tre parti: si diceva la prima, confusa tra invenzione e no, ma con la presenza attiva della bambina e della sua vita, e la presenza ‘passiva’ di un padre che non c’è perché è morto, in un incidente aereo.
    La seconda è un resoconto rapido e doloroso dell’uomo e del suo incidente (Volo perché non so camminare tra la gente) e delle ciniche ed inesorabili leggi militari (… per l’esercito si tratta sempre di errori umani. E replicare è difficile perché l’errore umano quando si vola è sempre una possibilità concreta). Addirittura un resoconto del corpo, disteso e frantumato sull’asfalto della pista di atterraggio, quando l’anima s’è già ‘involata’.
    La terza parte è la storia di Anna e della sua ossessione per la verità, che non è quella ‘storica’ o giudiziale, ma quella del proprio cuore di figlia a cui è stato sottratto un affetto o quello che avrebbe potuto essere anche qualcosa di più nella naturale dinamica tra padre e prole.
    Poi nel marzo del 2008, ho deciso di andare a vedere dove mio padre era caduto. Meiringen fin lì era soltanto un nome, come Auschwitz, come Stammheim. Anzi, ho deciso di andare a Meiringen invece che ad Auschwitz e l’ho fatto con un fotografo.
    Non stiano i puristi del dolore a protestare: invece è bello che la scrittrice identifichi il proprio con la grande tragedia dell’umanità. La sofferenza, per quanto moltiplicata per milioni, è la stessa se vissuta in modo singolare e personale.
    Stordisce alla fine del racconto la sua presa di coscienza, quando davanti ai documenti che lei stessa ha ‘reclamato’, si trova di fronte la prova ultima del ‘misfatto: una foto in cui la testa di suo padre è da una parte rispetto al resto del corpo su una grigia e mesta pista di atterraggio di un aeroporto svizzero. Paradossalmente non vi è frattura: anzi l’immagine le serve per ricucire un dolore e ricomporre un puzzle che nel tempo si è venuto a completare.
    Un racconto svelto come – senza banalità – un battito di un uccello. Senza fronzoli: e questo è straordinario quando le tragedie sottraggono aggiunte fastidiose e sproporzionate. Ce lo insegna la televisione, al contrario, che la morte è show e business.
    Anna Ruchat c’insegna il vero senso della pietas.

  8. Mariella Delfanti

    di Mariella Delfanti, Corriere del Tirino, 8 aprile 2011

  9. Paolo Di Stefano

    di Paolo Di Stefano, Corriere della Sera

  10. Teo Lorini

    di Teo Lorini, Confronti, 19 gennaio 2011

  11. Giovanni Catelli

    di Giovanni Catelli, Fahrenheit451

  12. Enzo Di Mauro

    di Enzo Di Mauro, Ultravista, 23 aprile 2011

  13. Lucia Morello

    di Lucia Morello

  14. Carla Benedetti

    di Carla Benedetti

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