di Marco Denti, Books Highway
Il road movie che si dirige Verso nord parte dalle disadorne stanze di Motel Life (Fazi) e attraversa un deserto di insegne al neon, conversazioni notturne, parcheggi, K-Mart, Flying J e altre amenità americane viste tra i fari di un’automobile e l’alone velenoso della televisione. Due luci che non si spengono mai nelle quarantacinque ballate che compongono Verso nord e il cui tenue bagliore, quell’aura crepuscolare, decadente e sottilmente malinconica che ben interpretano i Richmond Fontaine, è la cifra più evidente dello stile di Willy Vlautin. La sua protagonista, Allison Johnson è la guida che segue nei bassifondi di una civiltà che sta frugando della polvere della Levelland per cui è sempre colpa dei messicani e dei “negri”, una specie di sottoproletariato che vive quello che una volta si chiamava il sogno americano sempre come un’imposizione, figurarsi se riesce a mettere almeno un trattino tra speranza e utopia. La confessione di Allison, in forma di lettera che spedisce a se stessa mentre ascolta un greatest hits di Patti Page, è laconica: “Hai rovinato tutte le cose belle che ti sono capitate nella vita, hai fatto andare tutto sempre più a rotoli. Andrai all’inferno. Non importa quel che succede, tu comunque starai all’inferno per sempre”. Dove abbiamo già sentito queste parole? Hank Williams? Johnny Cash? Sì, sono loro le spiritual guidance di Willy Vlautin, anche se Verso nord è una versione delle Motel Chronicles di Sam Shepard aggiornate con in corpo meno whiskey e più speed.
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